R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il jazz ci aiuta sempre a rimanere coi piedi per terra. Ci ricorda che la musica, oltre ad essere veicolo dello spirito è anche una questione di pancia. Forse nessuno stile musicale, prima del jazz, è stato in grado di esprimere queste due polarità umane in modo così profondo. Ascoltando il nuovo, terzo lavoro da titolare di Keith Brown, African Ripples, ci si rende conto non solo di come anima e nervi possano integrarsi, ma anche come certa musica sia legata alla città e all’aria che si respira, nonostante l’evidente tributo al continente africano presente nel titolo. Queste “increspature” di superficie, queste crepe della memoria, lasciano certamente intravedere l’originario spirito africano ma tra tutto ciò e la musica qui rappresentata s’interpone l’aria di New York e precisamente quella dei Samurai Hotel Studios nel Queens, dove il disco è stato registrato. Africa, certo, ma al ritmo dei passi lungo i marciapiedi cittadini, tra il traffico, la metropolitana, i parchi e gli odori dello street food. Brown ci presenta un lavoro scorrevole e lineare che parla abbondantemente di sé, in parte riguardo la propria vita personale, in altra parte trattando esperienze condivisibili, familiari e non. Un discorso reso dialogato dagli interventi dei singoli musicisti e cantanti, nonostante il pianoforte di Brown abbia una decisa preponderanza nell’equilibrio sonico del gruppo. Uno dei compiti di questo progetto pare quasi essere un’intenzione rigenerativa nei confronti del mainstream, la ritempranza dei caposaldi dell’espressione jazz, cioè il recupero moderno delle scale be-bop, gli interventi di fiati sovrapposti all’unisono, la necessaria sospensione temporale di alcuni accenni nelle ballads. Oltre a tutto questo c’è però un secondo aspetto, quello dell’apertura verso i nuovi modi e mondi espressivi della musica contemporanea, il rap con le sue declamazioni quasi moralistiche, l’apparizione della pop music nella elegantissima ripresa di un brano come Come back as a flower di Stevie Wonder.

Il pianismo di Brown, com’è lecito aspettarsi, riconosce diversi maestri e sarei imbarazzato nel segnalarne precisamente qualcheduno ma tra tutti accennerei a Chick Corea e a Randy Weston che mi sembrano essere forse i più accreditabili. Il tocco sui tasti è molto morbido e forse meno nervoso di quello di Corea, comunque si tratta di un approccio pianistico che racchiude ottimi insegnamenti e, da quello che si ascolta, anche influenze dal mondo della musica classica. Accanto al titolare di questo African Ripples si muovono diverse figure tra cui l’importante e brillante presenza ritmica che appoggia sulle spalle del contrabbassista Dezron Douglas e della coppia di batteristi che si alternano nei brani, cioè Darrell Green e Terron “tank” [il soprannome è tutto un programma] Gully. C’è anche un abbondante parterre di ospiti, tra fiatisti, cantanti, rappers e coriste.
Il disco inizia con il primo frammento – ce ne saranno altri tre – dell’elaborazione di una traccia di Fats Waller, African ripples epigraph, scandito dal rappeggiare di Cyrus Aaron e preceduto da un sampler di note pianistiche originali di Waller. Truth and comfort è, a detta dell’autore, una riflessione sul clima familiare e confortevole in cui si può crescere ma anche della necessità di comprendere che la Verità non sta chiusa in una singola comunità ma ha bisogno di spaziare, di uscire del guscio protettivo per misurarsi col Mondo. Un bel tema musicale, delicato e meditato, impostato con eleganza dal piano e sorretto soprattutto dalla batteria di Gully, assolutamente piena d’inventiva e fantasia. Nafid si presenta in modo decisamente più contemporaneo, scale e arpeggi s’allontanano dalla formula mainstream per imboccare un corridoio ritmico fatto di corse ed arresti, riprese e rallentamenti. Un brano che si discosta un po’ dagli altri, se non altro per quella sensazione d’inquietudine che scorre sotto tutte le note. Just you just me è molto ritmato, quasi funky, ed in questo frangente si avverte l’influenza di Corea ma anche lo spirito di McCoy Tyner, soprattutto quando si entra nell’ambito dell’improvvisazione, per altro dove possiamo ascoltare un convincente assolo di contrabbasso di Douglas. 512 Arkansas street è dedicata alla famiglia di Brown e questo lo si avverte dal tono caldo e confidenziale dell’intera traccia, introdotta da una breve sequenza pianistica con funzione evocativa. La tromba con sordina di Russell Gunn e la calda timbrica del sax dalle tentazioni funky di Anthony Ware intervengono a lungo in questo brano presentandosi anche in due assoli molto convincenti, pieni di sofisticata classe esecutiva. Chiuderanno entrambi il brano, sovrapponendosi armonicamente l’un l’altro e riprendendo il tema, assieme al piano, responsabile della struttura basilare del pezzo. Poi è la volta delle altre due riprese di African ripples pt. One & Two. La prima è un breve divertissement che però viene sviluppato, nella seconda parte, da un’immersione nella capacità improvvisativa di Brown e della sua parte ritmica, basso e batteria che vanno a mille in omaggio al classico jazz anni ’50 e ’60. Sembra una regressione temporale all’Oscar Peterson dei tempi migliori. Da godere senza troppe riflessioni.

Queen è dedicata alla moglie di Brown, Tamara. Si tratta di una musica ad ampio respiro con l’intervento al canto di Camille Thurman che apre uno spazio profondo dietro la linea di fuoco del trio piano-basso–batteria alle prese con una struttura più rigidamente jazz. Africa e New York che s’integrano in una fusione piena di fascino ritmico e melodico. Come back as a flower, come già in precedenza detto, è di Stevie Wonder. All’insegna di una pop song intrisa di soul, Brown e compagni licenziano un brano che alberga comodamente tra i migliori dell’intero disco, anche per merito di un ritornello accattivante che entra con forza sottopelle. A prova di quanto si era già accennato: anche la forma canzone, se di buona qualità come in questo caso, s’allinea in prima fila tra le pagine più espressive dell’album, anche per merito della cantante Melanie Charles. 118th & 8th manifesta un incipit che ricorda certe introduzioni alla Joe Chambers e con un paio d’inserti d’ispirazione classica, una sequenza di accordi che evoca, pur alla lontana, il fantasma di Mussogrski. Un bel frullio di rullante e piatti, però, verso il finale, ci ricorda che siamo all’interno di una struttura jazz e non altro. What’s left behind tocca gli estremi di un’inquieta ballad, poco incline al romanticismo e in cerca di nuove esplorazioni dall’impronta saltuariamente dissonante. Le battute cambiano spesso di ritmo e insomma, se proprio una vera ballad non è, almeno ci assomiglia… Song of samson si avvale di percussioni latine e di parti di fiati, mentre il piano si avventura in una forma ibrida di latin-jazz alla stregua di un Michel Camilo meno esuberante. Da rimarcare l’assolo di sax nel suo solito timbro caldo – e in questo contesto mai così’ “a fagiuolo” – e l’intervento squillante della tromba a dare un tocco di allegra solarità all’intera composizione. Eye to eye with the sun resta ancora in pieno clima latino con il piano che arpeggia veloce prima d’incunearsi tra le trame armonico-melodiche del brano. Be-bop e ritmi del Centro-America costruiscono una traccia piuttosto vicina alla suggestione di Petrucciani in ossequio alla sua brillante vitalità. Sul finale la linea melodica viene riproposta rallentata, quasi a volerne chiarire l’intima struttura costitutiva. Ancora la voce di Cyrus Aaron nel penultimo brano dell’album, quello dedicato ai due nipoti di Brown, che pare quasi una preghiera o un’intensa e sentita preoccupazione per il loro futuro. L’ultimo omaggio a Fats Waller, con un ennesimo spezzone del suo African Ripples, chiude il debito ispirativo nei confronti della tradizione.
Dalle increspature dei ricordi, in un effluvio di profumi ancestrali, Brown ha respirato il suo passato affinché non dimenticasse mai l’origine della sua Storia che è quella che lo accomuna a tutti i jazzisti nero-americani. Non si tratta però di speleologia alla ricerca di timbriche perdute ma di tracciare un complesso universo di suoni che integrano il passato col presente. In definitiva è un po’ il lavoro assiduo, spesso certosino, che questo disco e il jazz americano contemporaneo stanno cercando, da tempo, di realizzare.

Tracklist:
01. African Ripples Epigraph
02. Truth and Comfort
03. NAFID

04. Just You, Just Me
05. 512 Arkansas St.
06. African Ripples Part I
07. African Ripples Part II
08. Queen
09. Come Back As A Flower
10. 118 & 8th
11. What’s Left Behind
12. Song of Samson
13. Eye 2 Eye with the Sun
14. Prayer for My Nephews
15. African Ripples