R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Arrivato alla quarta esperienza col suo ensemble Liberetto, il contrabbassista e violoncellista svedese Lars Danielsson fa ruotare alcuni compagni di viaggio attorno al trio stabile costituito, oltre che da lui stesso, dai fedelissimi Magnus Ostrom – chi non si ricorda degli E.S.T.? – e John Parricelli, rispettivamente alla batteria e alle chitarre. In questa occasione troviamo Gregory Privat che sostituisce definitivamente Tigran Hamasyan al piano, Arve Henriksen alla tromba e Kinah Azmeh al clarinetto. Cloudland viene completato dopo un obbligato coitus interruptus dovuto al lockdown, cosicchè questo lavoro iniziato nel 2019 ha potuto essere completato, finalmente, solo quest’anno. L’ascolto dell’album evidenzia una sua propria complessità ritmica che però scompare, come in un abile gioco di prestigio, nel fluire spontaneo della musica. Provate infatti a battere il piedino per seguire il ritmo, se ne siete capaci. Non immaginatevi però percussioni forsennate, ansiogene accoppiate basso-batteria di quelle che non fanno respirare. Questa polimetria di battute si svolge in un clima di serena tranquillità in cui l’aspetto poetico è predominante nonostante vi siano tempi ritmici dispari e sovrapposti. Il ruolo di un sontuoso batterista come Ostrom e la capacità di illuminare i dettagli delle cadenze da parte del contrabbasso di Danielsson non fanno minimamente avvertire il peso della complessità totale della struttura. La “classe”, infatti, è la capacità di rendere il difficile come fosse la cosa più naturale del mondo. Da questo punto di vista la classe di questo gruppo è altissima.

Il suono complessivo è morbido, dolce, in grado di essere suadente al netto di una performance controllata e composta, una di quelle esecuzioni con gli spazi sempre giusti, i respiri profondi, gli intervalli ariosi anche quando si comprimono sotto la velocità dei ritmi. Danielsson costeggia le rive della melodia, facendo tesoro anche di esperienze classiche come si ascolta nettamente nel penultimo brano della raccolta, Sacred mind. Nel breve preludio di apertura – Vidmark – un riverbero profondo crea un corpo sonoro quasi tangibile attorno alle note del violoncello basso di Danielsson. Si tratta, in questo caso, di uno strumento che è copia di un modello del’700, dal suono molto rotondo e melodioso. Cloudland s’introduce come una ballata dall’aria quasi latina, sembra uno strano tango argentino senza il bandoneon di Piazzolla ma bensì caratterizzato dal soffio sospeso della tromba di Henriksen. Da notare la tin-drum di Ostrom che riempie con gran gusto gli spazi tra un respiro e l’altro. Ascoltiamo un bell’assolo di piano, molto malinconico ed efficace, e poi il contrabbasso che intreccia le sue note in un breve, struggente evocativo richiamo verso questa misteriosa “terra di nuvole”. Sotto il canto di Danielsson la chitarra arpeggia con delicatezza. Brano splendido, che mi lascia incantato, di gran lunga il mio preferito. Con The fifth grade aumenta un poco la velocità esecutiva ma siamo sempre nei limiti di uno spazio abitato dalla consueta discrezione degli strumenti. Procedono all’unisono chitarra e piano per un lungo tratto mentre la pulsazione percussiva si fa più complessa (ma in quale scansione ritmica staranno mai suonando??). Anche qui l’atmosfera possiede una certa latinità e questa impressione ci accompagna più o meno attraverso tutto l’album. Nikita’s dream è ballata lenta, molto cantabile, con la melodia introdotta dal pianoforte. Le spazzole del batterista hanno l’incedere quasi di un respiro e accompagnano la musica sorretta da un bel dialogo tra contrabbasso, violoncello ad arco e piano. Raffinatezza estrema, come raramente capita di ascoltare. Tango Magnifique non fa altro che ribadire il “sospetto” prima avanzato: che la Cloudland non sia altro che un’Argentina immaginata, un sogno di musica lirica e rarefatta dall’anima sudamericana. Il piano prima, la chitarra poi, disegnano una melodia ripetuta dai due strumenti, uno di quei percorsi musicali che scavano il cuore di chi l’ascolta, quasi un engramma che lascia solchi indelebili nella memoria. Il suono della tromba completa il sortilegio, chiudendo il brano in serena bellezza. L’ascolto si fa orientaleggiante con Desert of catanga dove appare il suadente clarino di Azmeh e il piano si lancia in un assolo anfetaminico senza però squilibrare la bilanciata stabilità dei rapporti “condominiali” tra gli strumenti. Ognuno dice la sua e poi si ritira per far parlare l’altro, mentre le percussioni offrono il giusto e sostanzioso colore. In River of little si ripropone un altro tema all’unisono tra piano e chitarra e si entra in un clima tipicamente jazz, fin dall’inizio, con quei quattro accordi in progressione ascendente del piano a delimitare lo spazio emotivo dentro cui muoversi. Yes to you ci permette di testare il sapiente dosaggio di fiato di Henriksen con la sua tromba che introduce contrabbasso e pianoforte in due piccoli assoli, per poi riprendersi il pallino prima della melodicissima conclusione. Intermezzo, con quel clarino suonato nello spettro medio-basso, è un Fellini-Rota d’annata se non fosse per le intrusioni del contrabbasso e del piano ad offrire un’impronta più personale al profilo del brano. Villstad ci fa ritornare nell’ambito del puro jazz, con Privat che si diverte lungo tutta la tastiera accompagnato dal violoncello elettrificato di Danielsson che simula una chitarra elettrica tra un fender rhodes e una ritmica inaspettatamente fusion. Sacred mind, lento e lirico, inizia come una canzone ma si allarga su un piano orizzontale fino ad arrivare dalle parti di Debussy e della sua La mer andando a chiudere in modo ibrido tra la suggestione classica e la matrice più moderna del jazz. Imagine Joao ci fa ritornare dalle parti dell’America latina, lungo il versante brasiliano, con una lunga traccia melodica sviluppata dal contrabbasso. Vengono qui evocate assolate giornate estive, piene di luce e d’azzurro con quella indolenza che sconfina spesso nella sensualità dell’abbandono e del riposo. Il linguaggio discorsivo e colloquiale che ritroviamo lungo tutto l’album ci regala una certa familiarità con l’umore dei musicisti e con la loro sobrietà interpretativa. Uno dei miglior dischi che mi è capitato di ascoltare dall’inizio dell’anno, un perfetto esempio di equilibrio formale ed emotivo, animato da un sentimento nostalgico che non indulge mai in eccessivi rimpianti, anzi, propone nuove, profonde traduzioni dell’enigmatico spessore della vita.
Tracklist:
01. Vildmark
02. Cloudland
03. The Fifth Grade
04. Nikita’s Dream
05. Tango Magnifique
06. Desert of Catanga
07. River of Little
08. Yes To You
09. Intermezzo
10. Villstad
11. Sacred Mind
12. Imagine Joao.
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