R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Quando capita tra le mani un lavoro come questo Indaco Hanami del Trio KàlaRita Marcotulli, Ares Tavolazzi, Alfredo Golino – sappiamo in partenza che ci troveremo a tu per tu con un’opera consistente, non fosse altro per la caratura eccezionale dei tre musicisti che vi s’impegnano. Le personalità più tassonomiche che siano interessate alle numerose note biografiche degli artisti sopra menzionati possono sfogare le loro pulsioni girovagando per Wikipedia e raccogliendo un mondo d’informazioni al riguardo. Quello che possiamo aggiungere è che ci troviamo di fronte a musicisti con tanta esperienza e conoscenza musicale sulle spalle che dilungarsi in cronologie e presentazioni sarebbe a questo punto superfluo. La parola kàla, che qualifica il nome del gruppo, mi ha inizialmente causato qualche imbarazzo pensando fosse un termine greco. Invece il posizionamento dell’accento sulla prima sillaba ne suggerisce la provenienza dal sanscrito. I due significati che questo vocabolo possiede ci portano verso interpretazioni diverse ma tutto sommato complementari. Il primo suggerimento ci conduce a tradurre kàla con l’italiano indaco e guarda caso il titolo dell’album riporta proprio questo colore accanto al vocabolo giapponese Hanami che si riferisce alla contemplazione e al piacere della vista delle fioriture primaverili. Del resto l’immagine di copertina pare abbastanza eloquente al riguardo. Il secondo aspetto del termine kàla riguarda il concetto di Tempo, non nell’usuale senso diacronico che siamo soliti attribuirgli, ma con una sfumatura che lo porta ad assomigliare al greco kairos cioè il “tempo opportuno”, il momento in cui accade qualcosa di unico e speciale. E forse è da considerarsi così questo evento musicale, come un incontro esclusivo consacrato alla Bellezza, un appuntamento primaverile che ha scelto il proprio tempo e modo più opportuno per realizzarsi.

La Marcotulli è pianista elegante, che procede in modo limpido sulla tastiera, utilizzando oltre ai cluster tipici del jazz, note più larghe e accordi in forma lata. Le sue dissonanze sono molto oculate, essendo impiegate solo quando diventano esteticamente necessarie preferendo – almeno in questo disco – mantenere un suono pulito con una dovuta attenzione al lirismo delle melodie. Con Ares Tavolazzi e il suo basso potremmo dilungarci in una storia di successi e collaborazioni senza fine. Dico solo che qualche anno fa mi capitò di ascoltarlo al Blue Note di Milano con un basso elettrico a sei corde mentre accompagnava Maria Pia De Vito in solitudine. Un basso che reggeva, da solo, l’intero ruolo armonico. E poi chi non se lo ricorda con gli incazzatissimi e generosi Area? Quando invece penso ad Alfredo Golino mi viene in mente la parola “gavetta”. Se c’è un musicista in Italia che ha percorso negli anni tutti i generi partendo dalla base e facendosi le ossa con esperienze importanti diverse tra loro fino a diventare un batterista “perfetto” come ora, beh, questo è proprio Golino. Nell’ascolto di questo disco ne avrete la prova, cogliendo il senso della misura e la discrezione che lo contraddistinguono. Cosa accomuna tra loro i protagonisti di questo lavoro? La propensione all’eclettismo, l’aver compreso che il jazz non è un genere chiuso ma che si può ibridare con altre suggestioni, dal rock alla musica più leggera, dal classico alla tradizione più mainstream, mostrando sempre lo stesso abito sotto differenti fogge.
Indaco Hanami coglie, accanto a composizioni della stessa Marcotulli, altri interventi scritti con tutti e tre i musicisti e inoltre riproposizioni di brani famosi dei Beatles, di Pino Daniele, Randy Newman e Nino Rota. Siamo nell’ambito di un jazz melodico, poetico, quasi completamente tonale, costituito da un insieme che funziona in modo fluido, in un assetto caratterizzato dall’equilibrio di pesi e misure che non tende a cancellare o a mascherare le linee melodiche, le vere regine di questa operazione.

Indaco apre il disco intonando al piano un’aria d’impronta orientale, che sembra nelle battute iniziali poter seguire un andamento modale ma i diversi cambi di tonalità ci fanno capire che non sarà questa la direzione scelta. Di fianco al pianoforte si sistema progressivamente il contrabbasso suonato con l’archetto, poi seguito dal drumming policromo di Golino mentre la tastiera innesca un intermezzo di ispirazione a metà tra Glass e Nyman, riprendendo nel finale il canto iniziale. Bobo’s code è una vera ballad, pochi accordi introduttivi e qualche dissonanza che la tengono lontana da ogni sospetto di banalità e un bell’assolo, caldo e avvolgente di contrabbasso, proprio nel mezzo della composizione.  L’intervento della beatlesiana Lady Madonna non fa altro che confermare la curiosità della Marcotulli per i territori del rock. Naturalmente questa versione vuole essere molto più orientata verso una struttura jazz e comincia con un intro di sola batteria cui fa seguito il famoso ritornello frammentato e ricostruito in modo personale dal piano. Non saprei dire, però, se la scelta di questa traccia sia stata così indovinata perché tutto sommato sembra la meno coerente nell’ambito dell’intero progetto. Altra cosa è il brano di Pino Daniele che segue, Napule è. Una veloce cavalcata strumentale altera il ritmo della composizione ma ne rispetta la melodia fin dove sia possibile. L’impatto è ottenuto dal basso e dalla batteria a disegnare la rotaia su cui si lancia la Marcotulli che sembra quasi trattenersi nell’insistere sull’ossatura principale della canzone stessa. Il tono carezzevole del brano di Newman, I think it’s going to rain today è un distillato di pura saudade. Poche note pesate confermano l’idea che levare è meglio che mettere, a volte. A mio parere il momento migliore dell’intero album perché dosato al milligrammo, equilibrato alla perfezione, una di quelle produzioni che solo la grande esperienza di musicisti navigati può permettersi di realizzare. Dialogues è un’improvvisazione rarefatta, se vogliamo il frangente più “sperimentale” dell’intero album. La parte maggiormente stimolante è infatti l’ultimo terzo del brano dove ascoltiamo tra l’altro una sequenza di accordi suggestivi di pianoforte, in spazi aperti e velate malinconie, per finire con una serie di note basse ribattute. Di nuovo in zona Daniele con Quando, memorabile canzone, rivisitata devotamente dalla Marcotulli, ancora una volta attenta a non stravolgere nulla ma impegnandosi a metà brano in un’escursione coraggiosa che mi ha ricordato certe soluzioni di Chick Corea. Cose da dire s’acconcia con un po’ di romanticismo alla Bill Evans e c’è spazio per Tavolazzi che canticchia sullo sfondo mentre s’inerpica sul suo contrabbasso alla ricerca delle note giuste. Il trio funziona qui in piena integrazione, dimostra tutto il suo essere a registro e si lascia andare ad un piacevole dialogo defatigante, momentaneamente liberato dall’attenzione necessariamente focalizzata su una cover. Per finire, dalla colonna sonora di Romeo and Juliet viene qui ripreso il tema d’amore di Nino Rota e riproposto dalla Marcotulli inizialmente in solo con una diversa armonizzazione, poi bissato dal trio che sostiene il piano nelle sue escursioni attraverso differenti livelli armonici. Qui la prudenza della Marcotulli sembra allentarsi a favore di una ricerca più spregiudicata, concedendosi il lusso di osare qualcosa di più personale.

Questo Indaco Hanami è in definitiva un lavoro rilassato e rilassante che resta però talora in bocciolo, forse perché ci si poteva aspettare qualche brano originale in più e qualche rielaborazione in meno. Di certo il disco è molto centrato dal punto di vista professionale, fa comunque capire cosa significhi un lavoro di gruppo in cui l’esperienza accumulata in tanti anni di musica si materializza in una fusione strumentale realizzata a così alti livelli. 

Tracklist:
01. Indaco
02. Bobo’s code
03. Lady Madonna
04. Napule è
05. I think it’s going to rain
06. Dialogues
07. Quando
08. Cose da dire
09. Romeo and Juliet