R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La musica di Angel Bat Dawid si ascolta non senza qualche significativo turbamento. La quarantenne clarinettista, cantante, tastierista di Chicago si espone da sola nel suo ultimo lavoro, il terzo se non erro, con questo particolarissimo Hush harbor mixtape vol.1 – Doxology. C’è, in questo disco, qualcosa che non è facile raccontare. Si tratta, infatti, di un omaggio parlato e cantato – doxologico, appunto – dedicato ad una divinità o com’è in questo caso ad una santa brasiliana mai accolta ufficialmente nell’ambito cattolico. Parliamo di Escrava Anastacia, una schiava condotta dall’Africa in Brasile, all’epoca delle drammatiche traduzioni forzate di popolazione nera, che ha raccolto proprio in sud America un culto diffuso, anche se non propriamente ortodosso. L’immagine che la ritrae in copertina la mostra con quella speciale maschera di ferro che ne copriva parzialmente il volto, obbligata ad indossarla a causa, si dice, della sua conturbante bellezza. L’hush harbor a cui si fa riferimento nel titolo equivale al “porto di silenzio”, cioè un luogo boschivo e nascosto dove gli schiavi si riunivano per leggere la Bibbia e i Vangeli trovando conforto, almeno nella religione, alla loro vita disgraziata. Dove sta il turbamento di cui parlavo all’inizio, al di là della storia in sé dello schiavismo, già particolarmente drammatica da par suo? In primis nelle dichiarazioni della stessa Angel che insegue lo “sradicamento sonoro del sistema di supremazia bianca”. Cioè, se leggo in modo giusto e dando per autentica la suddetta citazione, la possibilità di svincolarsi dal sistema armonico e strutturale della musica tipicamente bianca e occidentale, anche se certi passaggi di accordi sulla tastiera mi ricordano Messiaen. Oppure l’autrice intendeva forse alludere al valore politico dei suoi suoni? Probabilmente sono vere entrambe le cose anche se la Bat Dawid non fa proclami di rivolte né si lancia in filippiche da comizio politico. Anzi, spesso i suoi parlati sono una via di mezzo tra accenni solidali, incoraggiamenti e orazioni – doxologie, appunto.  

Quello che è incontestabile è che la sua musica ha ben poche relazioni con quello che abitualmente già conosciamo, se non attraverso i fraseggi del suo clarinetto peraltro magnificamente suonato e a volte per mezzo di qualche passaggio alla tastiera. Il termine “nuovo”, pur con tutte le cautele di cui dobbiamo tener conto, è proprio quello più adatto per definire al meglio un lavoro come questo. Alla Bat Dawid non interessa la melodia ben confezionata, non suona jazz mainstream e nemmeno free. La matrice di Chicago, che lei stessa ha percepito nella naturale aria d’avanguardia jazz tipica di quella città, la si coglie in un certo spirito musicalmente polemico e un po’ provocatorio. Soprattutto, attualmente, la Bat Dawid mi sembra molto vicina ad un altro suo concittadino, quel Ben Lamar Gay cornettista che allo stesso modo propone una musica nuova, più profondamente ritmica ma che percorre le stesse insolite affascinanti strade – a conferma di quanto dico provate ad ascoltarvi un brano come Jubilee nel suo ultimo lavoro Downtown Castles Can Never Block the Sun. Per la verità l’atteggiamento della Bat Dawid mi sembra più in sintonia con la tensione mistica di Alice Coltrane o di Sun Ra o di Pharoah Sanders, e negli assoli di clarino mi ha ricordato gli intervalli suadenti e inconsueti di Eric Dolphy. Le tastiere elettroniche, la voce orientaleggiante filtrata da un vocoder, il canto corale costruito sovrapponendo la sua voce per assomigliare a una sorta di spiritual, contribuiscono a fare di questo disco un’opera veramente a sé, un’austera superficie sonora in cui l’essenziale, al contrario della nota citazione di Saint-Exupery, è decisamente “…visibile agli occhi”.

I brani sono più o meno tutti collegati uno all’altro e sfumano tra loro senza soluzione di continuità. Corn=Rowzz è il momento di apertura, caratterizzato da un gorgheggio un po’ gutturale, alterato digitalmente, che sembra un canto soffocato, su cui interviene il bellissimo clarino che spezza l’apporto vocale introducendo una trama di sonorità fruscianti ed elettroniche, prima della coda finale affidata ancora allo stesso strumento a fiato.
Negro hamlet, con la voce abbondantemente filtrata, pare un lamento, un gorgoglio che resta in gola e che s’intermedia tra il brano d’esordio e il successivo, Sunday meeting of coloured people at Chicago, che racconta un’abituale funzione di preghiera domenicale. Qui esplode il clarino dandoci un saggio delle sue evidenti possibilità, mentre nel sottofondo qualche accordo apparentemente scoordinato alla tastiera simula il timbro di un’armonica a bocca, innescando dei chiaroscurali micro dinamismi a sostenere la lunga e sicura escursione del clarino medesimo. ‘Goree,‘or slave-sticke era il nome di un bastone biforcuto ad un’estremità come una specie di forcella chiusa da una corda che stringeva il collo dello schiavo. Il termine “Goree” viene probabilmente dell’isola di Goree, in Senegal, che divenne sotto i portoghesi uno dei principali centri di smistamento degli schiavi verso le Americhe. Heathen Practices at Funeral è un’elegia funebre pagana dove, dopo il canto, interviene una suggestiva sequenza d’accordi alla tastiera con qualche riferimento alla musica europea occidentale.

Black family, Beaufort, South Carolina, 1862 aiuta a fissare l’attenzione sulle grandi piantagioni di cotone di Beaufort, nel profondo sud americano – esistono delle fotografie documentative in rete, a questo riguardo. Il canto, un po’ melodizzato ed un poco parlato, assume un’immagine spettrale, con voci nel sottofondo, rumori di attività lavorative, tamburi che danno il tempo e canti di gallo… Il clarino, con la sua umanissima voce, resta a costituire la traccia narrante tra i diversi spunti sonori. Più o meno sulla stessa linea si presenta Jumping the broom – il salto della scopa – che era una cerimonia beneaugurante durante i matrimoni nelle comunità nere. Qui il clarino si fa più luminoso, compaiono sonorità elettroniche e drum machine ma tutti questi suoni finiscono per essere soverchiati dalle sovra incisioni del canto della Bat Dawid che confluiscono in una sorta di spiritual, curiosamente avvolto da un sobollire di effettismi che rende il brano straniante perfino a sé stesso. El Quitrin-The joy of Living si riferisce al “quitrin”, un trasportino leggero a due ruote, quasi un calesse, trainato da un solo cavallo e il cui conducente era frequentemente – indovina chi viene a cena – il solito schiavo nero in livrea. Meglio che spaccarsi la schiena nei campi, comunque sia. Mama Bet fa riferimento ad Elizabeth Freeman, personaggio importante nella storia dei diritti dei neri in Massachusetts. Si tratta quasi una canzone, spiritata come un assolo di Albert Ayler. È una sollecitazione a non mollare, a stringere i denti “Don’t give up, when you’re tired just take a deep breathe…”. La voce, nel finale, riprende un suono naturale, scuro, come un profondo blues appena accennato ma drammaticamente potente. A young negress studying the game of ouri si riferisce ad un gioco strategico da tavolo, chiamato in vari modi – ouri, ouris, oware – che proviene originariamente da Capo Verde e che si accompagnò alle migrazioni forzate della popolazione in America. Il brano è interamente sostenuto da effetti elettronici, con passaggi che ricordano alcune idee originali di compositori moderni come Ligeti o Subotnick. Husband of the queen of Walo, Wolof, continua su un arpeggio di tastiera elettronica su cui viene immessa una drammatica, oppiacea sequenza di accordi con timbro chiesastico e vien da chiedersi se i riferimenti a certa musica sacra del ’900 siano così casuali…Il Wolof, per inciso, è anche il nome di una lingua parlata dall’omonima popolazione del Senegal. Si chiude con Negroes leaving their home, dove una sorta di carillon commenta con spettrale tristezza l’abbandono della terra d’origine. Il rumore di catene lascia pochi dubbi e le note in dissolvenza di un’armonica a bocca evocano l’incredulità e l’amarezza di un abbandono imposto con la violenza.

Questo lavoro, nel suo complesso, non consente una lettura leggera e disinvolta né dell’argomento trattato né della musica utilizzata per farlo. Non è certo un disco da portarsi sulla spiaggia né, dubito, sull’isola deserta. Però ha un enorme pregio che non dobbiamo assolutamente sottovalutare. Se c’è un orizzonte prossimo per la musica nera americana, a cavallo tra il jazz – il cui termine sta diventando quasi obsoleto – e qualcosa d’altro di difficile e futura definizione, ebbene questo skyline ha nel lavoro della Bat Dawid e in altri suoi colleghi della scuola di Chicago la sua più autorevole manifestazione. Hush Harbor…dal canto suo si presenta senza enfasi, al netto di ogni sentimentalismo, con una forza profonda che non sa di rabbia ma di cruda analisi e, ovviamente, di un sentimento carico d’amore e di compassione. Un’ultima osservazione riguarda lo schiavismo che sopravvive ancora oggi, anche attorno a noi, qui in Italia, con quegli immigrati – cambia la forma ma non la sostanza – che muoiono di fatica sotto il sole di mezzogiorno a raccoglier pomodori.

Tracklist:
01. Corn=Rowzz
02. Negro Hamlet
03. Sunday Meeting of Colored People at Chicago
04. ‘Goree, ‘ Or Slave – Stick
05. Heathen Practices at Funerals
06. Black Family, Beaufort, South Carolina, 1862
07. Jumping the Broom
08. El Quitrin – The Joy of Livin
09. Mama Bet
10. A Young Negress, Studying The Game Of Ouri
11. Husband of the Queen of Walo, Wolof
12. Negroes Leaving Their Home