I N T E R V I S T A
Articolo di Andrea Notarangelo
Gibbone è il nuovo EP degli I Hate My Village, progetto nato dalla voglia di sperimentazione di Marco Fasolo (Jennifer Gentle), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e Alberto Ferrari (Verdena). Dopo l’omonimo album d’esordio del 2019, che ha destato un certo interesse per l’originalità della miscela creata e il sapiente utilizzo dei più disparati ingredienti, eccoli ora tornare con una nuova amalgama psichedelica, condita da musica etnica e blues. Ma le definizioni, non rendono mai giustizia e restano solo un bell’esercizio di stile per chi scrive di musica. La band infatti, ci racconta di come mantiene viva e originale la sua proposta concentrandosi sulla propria attitudine senza badare al risultato. L’innesto di parti noise, care ai quattro, risulta essere una piacevole sorpresa, piuttosto che qualcosa di scontato. Abbiamo avuto l’opportunità di raggiungerli virtualmente per una chiacchierata dal sapore etnografico, dove si è parlato di linguaggio, ritmo, suono e libertà.
I titoli delle vostre canzoni sono eccentrici, ripenso ad esempio a “Tony Hawk del Ghana”, tratta dal vostro disco precedente. Mi raccontereste qualcosa sul nome della title track del vostro EP in uscita, “Gibbone”?
È un riferimento alla natura selvaggia ed incontaminata ma anche ad uno stato mentale, ad una condizione psicologica. Ad un passo dall’uomo e ad un passo dalla bestia.
Un gibbone in gabbia che smania urla e sputa. Un gibbone che ora è forse tornato libero. Ci piace mischiare elementi apparentemente contrastanti per creare sfumature dai colori forti.
“Hard Disk Surprize”, la canzone che chiude l’EP, mi fa pensare a quei momenti in cui inserisci una vecchia memoria esterna nel computer e ritrovi pezzi della tua esistenza ormai andata. Ho avuto l’idea di un miscuglio di passioni tenute assieme dal filo dei ricordi. Cosa ne pensate, può avere un senso quest’immagine?
Grazie, non avrei saputo descriverlo meglio. È proprio come è andata, alcune idee devono riposare un po’, fermentare. In questo pezzo ci siamo ritrovati ad essere spettatori di noi stessi ed è stato sorprendente..
Quanto influenza il tentativo di descrizione della musica, rispetto a ciò che realmente sente l’ascoltatore finale? Vi faccio questa domanda in quanto, seppur presenti in buona misura delle influenze di musica africana, personalmente ho trovato dei rimandi a “Millions Now Living Will Never Die”, secondo disco dei Tortoise. Cosa ne pensate a riguardo?
Che disco e che band i Tortoise! Sicuramente fanno parte del bagaglio di tutti noi. Non credo che la descrizione influenzi poi troppo l’ascoltatore. E nemmeno il musicista. Capita spessissimo di suonare qualcosa ed ognuno ha riferimenti in testa molto diversi pur partendo da un concetto condiviso. Con IHMV ci sentiamo molto liberi ed ogni definizione è benvoluta.

Quanto cambiano le vostre canzoni in sede live? Cosa perdete e cosa acquistate nella loro riproposizione dal vivo?
Cerchiamo di portare dal vivo la stessa attitudine del disco. Il disco nasce partendo da alcune annotazioni di idee evolute in tempo reale in studio improvvisando strutture e melodie. Dal vivo cerchiamo di usare a sua volta il disco come annotazione e spunto per poi improvvisare. Le nostre prove in sala si concentrano per lo più sul disimparare il disco in una sorta di continua regressione ad uno stato primordiale e spontaneo.
Qual è il vostro processo di composizione?
Innanzitutto curare nei dettagli il set up tecnico. Ad esempio gran parte dell’ep è stato registrato su cassetta. É una scelta che condiziona a priori il risultato delle registrazioni, che cambia profondamente l’approccio allo strumento. Ci piace darci dei limiti ed all’interno giocare. Il resto di solito arriva da sé e spesso ci sorprende.
Quanto è importante l’elemento percussivo nell’economia un pezzo degli I Hate My Village?
È fondamentale perché primordiale. Ogni strumento ed ogni melodia può essere ricondotta ad una sintesi ritmica… La nostra è una musica semplice ed immediata, ad ogni movimento corrisponde sempre un suono.

Il vostro paesaggio sonoro sembra essere costruito sull’idea di uno stravolgimento delle parti, secondo cui i rumori di sottofondo sono inseriti in primo piano. Cosa ne pensate? È qualcosa di ricercato o semplicemente è capitato?
Siamo tutti musicisti che hanno fatto un enorme ricerca sul linguaggio, sulla scrittura e sul suono. Quel che poi succede quando siamo in sala capita e basta. La nostra sperimentazione è più nell’attitudine che nella consapevolezza del risultato. Nell’ep ci siamo divertiti a dilatare spazio e tempo il che credo renda più intimo e profondo il racconto.
Quando una band come la vostra, perde lo status di “Supergruppo” e viene considerata come un’entità a sé stante?
Nel momento esatto in cui l’ascoltatore si libera da preconcetti. Quindi ci riguarda poco. Credo che la nostra musica spieghi benissimo quanto sia spontaneo il nostro progetto. Detto questo siamo molto fortunati ad avere credito a prescindere da parte del pubblico, è una grande responsabilità.
Questo progetto quanto vi consente di sperimentare e andare al di là di ruoli canonici che vi siete ritagliati nelle precedenti esperienze musicali?
Tantissimo, così come credo lo facciamo tutti nelle rispettive altre band. IHMV poi è sicuramente una anomalia, un momento di celebrazione e di enorme libertà.
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