R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Cos’è il destino? Una prospettiva? Una concatenazione di eventi a cui solo successivamente si può attribuire un senso? Un groviglio di fatti? È un tema sul quale ho spesso riflettuto senza mai trovare nella filosofia o nella letteratura, una risposta, non dico esaustiva, ma nemmeno lontanamente soddisfacente. Ho scoperto poi che la cercavo in ambiti, per così dire “sbagliati”. Mi sono invece imbattuto, non del tutto casualmente, in una risposta molto più stimolante quando ho incominciato ad ascoltare Les douze cordes du destin, pezzo di apertura dell’eclettica formazione L’effet Vapeur, dal loro ultimo lavoro intitolato Ring. E così mi si è rivelato cos’è il destino: un insieme di armonie e disarmonie, stridore e ritmo, alti e bassi, un movimento disomogeneo come il corso delle nostre vite, che magari vorremmo diverse, ma che in fondo, ascoltando con attenzione (sia le vite che il pezzo), possono rivelarci tante sfaccettature e tanti momenti diversi.

E se poi si volesse continuare ad ascoltare questo caleidoscopico disco di jazz (tanto per dire qualcosa), si farebbe solo un gran bene perché Jean-Paul Autin (ai sax, flauto e clarinetto basso), Xavier Garcia (alle campionature elettroniche), Guillaume Grenard (alla tromba, eufonio, flauto traverso, basso elettrico) e Alfred Spirli (batteria, percussioni e attrezzi), sono quattro inventori geniali e coraggiosi, costruttori e decostruttori di combinazioni sonore allegre e sgangherate, poetiche e tormentate, sperimentali ed elettroniche, malinconiche e folcloriche. Del resto lo stesso più ampio collettivo di cui fanno parte dal 1993, denominato ARFI (anche etichetta del disco), si fonda sul concetto di “folklore immaginario”. Il “Ring” a cui fa cenno il titolo, altro non è che il disco stesso, dove i musicisti salgono per una disfida a colpi di improvvisazione e confronto fra strumenti, all’insegna del totale individualismo. Ma è curioso notare come da quattro individualismi possa nascere poi un lavoro che potrebbe anche sembrare omogeneo, benché tale non voglia essere. Poliglotti della musica che parlano lingue diverse e che sanno convivere nella loro diversità in una improvvisazione continua e solo apparentemente ingenua.

Ascoltando Joelle Hunter si evidenzia questa capacità di creare melodie che poi si frantumano attraverso distorsioni sonore (non solo elettroniche), per poi ritrovare un senso di marcia nuovamente armonioso e che poco dopo va nuovamente ad infrangersi nell’atonalità rumoristica. Niente male anche i recitativi neo-dada di Modalités polch-shiks! dove tra dialoghi surreali (“Gesù è un formaggio”) e bizzarrie elettroniche, si palesa la grande inventiva e la strabordante esuberanza di questo ensemble “ad assetto variabile” (ricordo la bellissima performance nell’edizione 2019 al NovaraJazz Festival). Magnifico e quasi aulico atonalismo free in Récupération Intermédiaire, ossessiva sequenza seriale in crescendo nel successivo -Cata- Jack, e chiusa in grande stile “surreal-pop-duchampiano” in L’affrontement de cochons volants. Non sapete cos’è il “surreal-pop-duchampiano”? Non vi preoccupate, non lo so nemmeno io, probabilmente non lo sanno nemmeno i musicisti e se lo sanno, non sapevano di saperlo. Questo è lo spirito con cui si deve ascoltare questo gioiellino.


Tracklist:
01. Les douze cordes du destin
02. Dernier round
03. Gol mej baithak ou la table à palabres
04. Middle Kick
05. John Nervousbone
06. Catch as Catch Can
07. Seul sur le ring
08. Modalités polch-shiks!

09. Joelle Hunter
10. Récupération intermédiaire
11. -Cata- Jack
12. L’affrontement des cochons volants