R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Una sbirciatina sul mondo vetusto e solenne dei nostri avi la possiamo dare semplicemente leggendo i motti e le massime latine che compaiono sulle meridiane di molte città italiane ed europee. Quegli antichi orologi – più spesso oggi riprodotti per vezzo – che seguivano l’ombra lasciata dalla corsa solare, suggerivano al passante dei veri e propri momenti di riflessione incentrati sul valore del Tempo. Questo album di Rosario Di Leo, quarantenne pianista siciliano, contrae il suo titolo – già di per sé intrigante di Homotempus – da una delle tante epigrafi riportate su una di queste meridiane, cioè Homo tempus metirit, tempus hominem (L’Uomo misura il Tempo, il Tempo misura l’Uomo). Certamente, Di Leo, il suo tempo l’ha finora decisamente ben speso, intraprendendo un rapporto con la Musica fin da ragazzino nella banda del paese e che si è rodato poi con diverse esperienze eterogenee – per esempio suonando sulle navi da crociera – e seguendo infine i doverosi studi musicali accademici e di perfezionamento. Attratto dalle molte sfaccettature dell’arte di Euterpe, affascinato dalla dimensione artistica a tutto tondo, laureato al DAMS di Enna, coinvolto in numerosi interessi nell’ambito della musicologia, Di Leo arriva oggi al suo quarto disco da titolare. Si tenga però presente che due delle precedenti uscite, Overboard del 2016 e L’opera è jazz del 2019, furono editate in coppia rispettivamente con Frank La Capra e con William Grosso. Per stessa ammissione di Di Leo le influenze musicali assorbite nella sua vita sono state veramente tante. Alcune di queste si sono riversate nelle note di Homotempus, impedendo parzialmente a quest’opera di allinearsi lungo una direttiva precisa e riferirsi ad un archè cui ricondurre tutte le variegate ed eclettiche composizioni, molte delle quali create in tempi e luoghi diversi. Certo, il jazz rappresenta forse l’angolo prospettico preferenziale scelto dall’Autore ma è indubbio come, durante lo svolgersi dell’intero lavoro, si avvertano reminiscenze classiche, frammenti di rock-progressive, suggestioni etniche medio-orientali e persino costruzioni armoniche vicine alla pop music.

Lo scorrere dell’album obbliga l’ascoltatore ad un’attenzione continua, lo tiene sulla corda, stimolandolo costantemente, proponendogli una serie di paesaggi sonori ben differenti l’un dall’altro. Un po’ quello che succedeva – ma ovviamente si tratta di fondamenta diverse – con certi vecchi dischi dei Gentle Giant o degli Yes, per esempio, in cui la continua trasformazione della scena musicale obbligava a non perdersi un solo minuto di esecuzione per cercare di non smarrire il filo di ciò che si stava ascoltando. La formazione presente in Homotempus include, oltre a Di Leo al piano, al synth e a qualche intervento di drum-machine, anche Riccardo Grosso al contrabbasso, Bernardo Guerra alla batteria e la coreana Sunah Choi al violoncello.

Il disco si apre con Flower’s Life esordendo con un veloce fraseggio di piano e qualche sonorità di synth di sottofondo. Poi entrano all’improvviso tutti gli strumenti con un pieno quasi sinfonico dal tenore drammatico, molto classicheggiante, che finisce momentaneamente per addolcirsi nell’abbraccio romantico del pianoforte e del violoncello. Un gioco di vuoti e di pieni che si ripete fino all’insolita progressione di accordi discendenti che precede la chiusura. Aria Nuova risente ancora potentemente dell’impronta classica almeno fino ad un terzo della composizione, dove poi l’atmosfera muta in qualcosa d’altro. Entra l’influenza jazz che offre una decisa sferzata ritmica, nonostante batteria e contrabbasso si mantengano discreti senza appesantire il brano. È il violoncello, qui e altrove, che vibra nella mente con il suo elegante portamento melodico e qualche nota di velata struggenza, arrotondando il suono globale del brano, per altro molto ben armonizzato da Di Leo col suo pianoforte. Siciltango è scansionato dall’accoppiata violoncello e tom di batteria, con un assolo di contrabbasso che rimarca ulteriormente il sapore drammatico del pezzo. Del resto il tango stesso, pur addolcito in questo caso da un bel ricamo pianistico, porta sempre con sé un pizzico di Thanatos in più rispetto alla componente erotica, tanto da trovarmi d’accordo con una citazione di Cortazar che descriveva il tango come…”un cuore pulsante inchiodato all’interno di una bara”. (!) Ad ogni modo Siciltango è tra i brani più suggestivi dell’album, con quella ammaliante melodia portante capace di spingerci verso un ascolto ad libitum. Qualche rumor di pendola introduce L’Uomo e Il Tempo che ha un andamento più incalzante rispetto alle tracce fin qui ascoltate – e come potrebbe essere altrimenti? Qui il lavoro ritmico è ben scandito da un battito carico di mordente con un mood vagamente ansiogeno e un piano che in alcuni punti ricorda Rick Wakeman. Forse la traccia che più si avvicina a certe influenze progressive a cui avevamo accennato, soprattutto con i numerosi stacchi strumentali e le entrate robuste della batteria. Far Away è molto evocativo e sembra scavare nella memoria dell’autore, complice anche il fischiettare all’inizio del brano – chi fischietta di più, oggigiorno, camminando per strada? Una certa malinconia di fondo si propone con un tema melodico di sapore orientale che sfocia, durante il brano, in un percorso a tratti più tumultuoso, reso ancor più drammatico dalle corde basse del violoncello. Tra Ryuichi Sakamoto, jazz e musica classica questo brano tocca veramente varie influenze musicali, perfettamente in linea con il profilo eclettico di Di Leo – a proposito, si faccia attenzione all’assolo di piano nel finale che contiene tutti i punti cardinali della musica fin qui sviluppata.

Istantanea s’immerge in un’iniziale sottofondo di synth in un caos controllato dalla batteria e dal piano fino al punto in cui si trova una quadra per un brano che ricorda motivi sincopati dai lontani richiami sudamericani. Ritmi sostenuti e brillanti con un dialogo interessante tra Grosso e Guerra nel pezzo dal profilo più allusivamente jazz-latino dell’intera raccolta. Con Liens  le velleità ritmiche s’acquietano e il dialogo si sposta verso il duo violoncello – anche pizzicato – pianoforte. Lo spazio sonoro si fa più intimo e assume le sembianze di una ballata lenta, quasi un piccolo mal di vivere nel contesto di un album complessivamente più solare che ombroso. Una prova di calibrata sobrietà che si manifesta, alfine, con caratteristiche di tranquilla e ipnotica seduzione. Il tempo di portarsi altrove – precisamente in Strong – e il tutto appare inizialmente come un tangaccio da bassifondi che tenderà a trasformarsi, complice il synth, in un brano che ricorda gli EL&P. Molta energia liberata, tutto sommato una botta di vita quasi rock, anche se questa parentesi appare leggermente slegata dal contesto globale Un piccolo capolavoro è invece la versione di Giant Steps, veramente insolita e riadattata alla sensibilità di Di Leo che conserva solo qualche passaggio dell’originale. Manovra intelligente e un po’ spavalda ma che non arriva alla tracotanza. Piuttosto che scimmiottare un brano così epocale, molto meglio servirsene come semplice appunto su cui strutturare una ballad, così come fanno Di Leo e compagni. Bell’assolo di piano in stile hard bebop con il violoncello che richiama il coltraniano tema di base. The dark side of mid-east, a parte la conta iniziale – credo in lingua araba – rammenta poco la geografia medio-orientale, anzi si orienta verso un linguaggio proteiforme tipicamente più occidentale. Presenti gli assoli di contrabbasso e di batteria e in questo ultimo frangente il piano organizza un ostinato contrappunto così come lo avrebbe fatto Rubalcaba o Camilo quando sostengono l’esibizione in solo di un elemento della loro band. Grandioso ad Mortem, dall’incedere fortemente drammatico, si avvale dell’apporto riempitivo della drum-machine per scandire il ritmo cadenzato del brano. Una contemporanea dance macabre scandita dal Tempo, dunque, che conclude l’intero percorso tornando significativamente ai concetti di base.

L’ascolto di un lavoro come questo prevede uno stato di “rilassata attenzione”. “Rilassata”, perché il linguaggio coeso dell’album non punta ad elementi dissonanti e anzi i fattori melodici e armonici sono l’asse portante e ineludibile di tutto lo sviluppo musicale. “Attenzione”, perché il continuo movimento tra generi ed ispirazioni diverse possono sviare da eventuali aspettative di omogeneità. Ma probabilmente è proprio questa instabilità direzionale che costituisce il fascino di Homotempus, basato su una punteggiatura dinamica e sulla tecnica trasparente di tutti i musicisti, impegnati nel raccogliersi in una pluralità di idee certamente fuori dal comune.

Tracklist:
01. Flower’s Life

02. Aria nuova
03. Siciltango
04. L’uomo e il tempo
05. Far Away
06. Istantanea
07. Liens
08. Strong
09. Giant Steps
10. The Dark Side Of Mid-East
11. Grandioso ad mortem