R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ciò che immediatamente colpisce in questo album d’esordio del batterista Fabio De Angelis, Third Wave, è l’attento equilibrio dei suoni e il senso della misura, reso manifesto da una accurata collocazione di pesi e contrappesi equivalenti. Ci sono ampi spazi attorno ai musicisti senza nessuna fastidiosa sovrapposizione di suoni, con assoli calibrati in modo da non risultare eccessivamente preponderanti nel rispetto di un giusto rapporto tema- improvvisazione. Si possono ascoltare silenzi diluiti nei dialoghi, pause strategiche tra i diversi momenti colloquiali e tutto ciò in un ambito prevalentemente tonale, offrendo un’impressione generale di energia controllata e rilassata. La configurazione della struttura musicale è molto plastica, si passa dalla ballad a temi più mossi, riascoltando finalmente un po’ di swing che è sembrato essere per tanti anni il grande assente nel jazz contemporaneo, quasi un eccentrico outsider da tener lontano per non sembrare troppo passatisti. Ho ritrovato un criterio d’ordine simile a questo album in diversi recenti lavori di giovani jazzisti, come ad esempio quello del pianista newyorkese Isaiah Thompson, segno di come certi eccessi stravaganti che hanno dilagato nel jazz contemporaneo comincino ora a mostrarsi in fase declinante. Accanto ai suoni ponderati della batteria di De Angelis troviamo Ares Tavolazzi a completare la base ritmica con il suo contrabbasso e inoltre alla chitarra elettrica Luca De Toni – che usa timbriche più che collaudate nell’ambito della sei corde jazz – insieme al pirotecnico sax tenore di Roberto Bonisolo. Nell’album si susseguono composizioni dello stesso De Angelis abbinate a standard di altri autori – da Miles Davis a Sam Rivers fino ad un sempiterno brano di Gino Paoli – mantenendo però una costante di piacevolezza intertestuale che è un po’ il vero filo conduttore di Third Wave.

Tribulacao è l’ondeggiante apertura dell’album che prende corpo con un ritmo dondolante di suggestioni latine. Da subito individuiamo il gioco delle parti, l’impeccabile base ritmica, il sax esuberante e l’accompagnamento maculato della chitarra che con i suoi spot chiaroscurali dona rilievo e tridimensionalità alla composizione. Il tono generale è leggero, tranquillizzante e le sonorità scorrono senza attriti di sorta. La situazione si modifica un po’ con il brano seguente, un rifacimento di Boplicity, originariamente frutto della collaborazione di Miles Davis con Gil Evans e tratto da quell’album fondamentale del 1957 che fu Birth of the Cool – in realtà questo pezzo fu composto diversi anni prima nel 1949, cioè l’anno a cui risalgono le prime sessioni d’incisione del brano in questione. Curiosamente l’attacco iniziale finisce per somigliare in modo, probabilmente casuale, a Well, you needn’t di Thelonious Monk. La traccia viene moderatamente accelerata rispetto all’originale, comunque il tema viene conservato e swingato, anche se, in questo caso la formazione a quartetto obbliga ovviamente a rimescolare un po’ le carte. In evidenza il tenore di Bonisolo che dimostra grande personalità e la chitarra De Toni che si vincola al contesto con un elegante e raffinato assolo. C’è spazio anche per una breve passerella del contrabbasso di Tavolazzi, peraltro cuore pulsante e coesivo in ogni brano dell’album. Lake Zurich è una ballad composta da De Toni in cui ogni musicista ha il suo giusto respiro e l’opportunità di liberarsi nei vasti spazi organizzati tra gli interventi strumentali. La chitarra è discreta, con interazioni alla Abercrombie e può adagiarsi sull’ottimo tappeto percussivo della batteria di De Angelis. Brano molto intenso, emotivamente significativo, coronato dagli interventi del sax assai ben condotti in un finale pieno di volume e densità. Beatrice è opera di Sam Rivers, estrapolata da Fuchsia Swing Song del 1965. Il brano viene introdotto da un giro di contrabbasso prima e di chitarra poi, mostrando un andamento complessivo più veloce già dall’inizio, mentre l’originale di Rivers approcciava l’ascoltatore più lentamente per poi accelerare i tempi sotto le bordate di sax del suo autore. Bisogna dire che questa versione non ha nulla da invidiare all’originale, è ordinata e lineare, concedendo spazio anche ad un breve stacco di batteria dal drumming pulito e preciso per opera di De Angelis.

Diamond Boy mostra una certa complessità soprattutto nello sviluppo della linea melodica caratterizzata da un mood quasi shorteriano, immerso in un’intima atmosfera notturna. Soprattutto in brani come questo avvertiamo tutta la notevole competenza tecnica ed espressiva dei musicisti, coinvolti in un sottile equilibrio di misure come si era già indicato nelle note iniziali, un bilanciamento di suoni e di interventi che determina il vero valore di quest’album, al di là della piacevole esecuzione strumentale. A mio parere questa traccia è tra le cose migliori del disco e forse rivela l’aspetto più moderno e contemporaneo di questo album che ha radici ben piantate nella tradizione ma una fioritura del tutto personale, non priva di una qual certa sofisticatezza. Senza fine è l’iconico brano di Paoli che presenta, già di per sé, interessanti modulazioni armoniche su cui queste rivisitazioni jazz trovano terreno fertile. La canzone, originariamente molto romantica, viene sgravata dai suoi aspetti più sentimentali e diventa un vero e proprio esercizio jazzistico in ¾ senza passaggi sdrucciolevoli, quasi un divertissement condotto con bon-ton e comunque rispettoso dell’anima del brano. Del resto conosciamo i legami storici di Paoli col mondo del jazz e le sue frequenti collaborazioni con vari musicisti provenienti da quest’area. Third Wave si riferisce alla terza ondata epidemica ma questo brano è tutt’altro che triste o depressivo. Uno swing massiccio, con stacchi e contro-stacchi, che ci porta un po’ indietro nel tempo tra le braccia di quella tradizione di cui si è già scritto. Pulsazione ritmica ben centrata, puntuali escursioni strumentali, compostezza delle parti, insomma un gran bel sentire, divertente e soddisfacente all’ascolto. Just in time è uno standard di Jule Styne che originariamente faceva parte del musical Bells are ringing rappresentato per la prima volta nel 1956 e che è stato rivisitato attraverso diverse cover, da Tony Bennett a Dean Martin, da Judy Holliday a Nina Simone. Dopo una breve ma convulsa introduzione di sax si riconosce il tema originario che qui va a mille all’ora trasformandosi in un torrido percorso tra stacchi di batteria e fraseggi serrati del sax e della chitarra. L’album si conclude quindi all’insegna di una musica veloce, condotta senza lambiccamenti estetizzanti ma col piglio deciso di uno swing che non ammette pause.

Third Wave è un disco molto piacevole, soppesato nei dettagli, con una precisa messa a fuoco di cosa significhi suonare jazz nel primo ventennio degli anni duemila. Un gergo sicuramente sedimentato dalla tradizione bebop fino ad oggi ma riproposto in una forma più attuale e disincantata, sostenuta da strumentisti decisamente all’altezza delle loro ambizioni…

Tracklist:
01. Tribulaçao
02. Boplicity
03. Lake Zurich
04. Beatrice
05. Diamond Boy
06. Senza Fine
07. Third Wave
08. Just in Time