I N T E R V I S T A


Articolo di Arianna Mancini, immagini sonore di Mirko Mancinelli

Ci troviamo in Toscana, ad Arezzo per l’esattezza, base del progetto artistico Sycamore Age, nato nel 2010, dall’incontro casuale di chi vede nella musica un flusso ininterrotto da esplorare costantemente. La formazione è oggi giunta al loro terzo lavoro in studio full length, con l’aggiunta di un curioso feticcio di remixes/reworks. Entusiasta di andare a fondo nella loro storia, parto con Mirko, che fisserà nei suoi scatti alcuni momenti di questa giornata. Ad attenderci al Sycamore Age Studio, laboratorio alchemico in cui prendono corpo i loro “manufatti” c’è Stefano Amerigo Santoni (chitarre, basso, percussioni, voci, mixaggio, mastering, produzione e grafica). Giusto il tempo di un caffè, fare qualche foto e partiamo alla volta del centro storico per incontrare il resto della band. Reunion in grande stile, ci sono proprio tutti: Daniel Boeke (clarinetti, voci), Francesco Chimenti (voce, piano, chitarre, basso, violoncello), Franco Pratesi (violino, synth, voci) e Luca Cherubini Celli (batteria, percussioni). Siamo pronti: ciak, si gira!

Nel tempo dilatato che stiamo vivendo, ben si inserisce questa intervista a distanza dalla pubblicazione di Castaways, avvenuta nel dicembre 2020. Un disco oracolare, che non ha avuto modo di vivere ed essere promosso come avrebbe meritato, soprattutto per il periodo in cui è uscito. Siete stati profetici e portavoce di un sentore espressionista, vi definivate naufraghi senza una tempesta, poi in realtà la tempesta c’è stata…

Francesco: Ci possono essere infiniti tipi di tempeste, poi dipende anche con quale spirito vengono gestite. Possono anche essere piccole tempeste personali, ognuno ha i suoi piccoli bisogni, i suoi momenti che lo smuovono e anche questo può essere inserito in Castaways, senza aver comunque una catastrofe; che è avvenuta, e possiamo dire che è stato un lavoro profetico da quel punto di vista. Comunque, è uno stato d’animo che continuiamo ad avere e che si avverte tanto. Già prima della pandemia, per colpa di internet o dei social, c’era questo appiattimento dei gusti musicali, della curiosità di molte persone; siamo tutti nell’agio totale e la mancanza di scossoni molte volte non permette una rinascita o un’evoluzione. Stiamo a vedere se questa tempesta che c’è stata ci farà capire qualcosa. Sinceramente, più vado avanti e più ho dei dubbi.

Luca: La tempesta non è poi quella della pandemia, ma è da intendersi come stato d’animo che lascia, ciò che rimane dopo, lo stato d’animo di chi ne esce. Come in questo caso in cui è conclamata. Sono cose che si capiscono con il tempo.

Stefano: Diciamo che non era quella che paventavamo, la mia preoccupazione è che la tempesta non sia stata abbastanza tempesta, forse lo scossone non è stato abbastanza forte, vedremo. Mi spiego, il concetto è da vedersi come un paragone con ciò che è successo in Italia dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, un periodo catastrofico a cui è seguita, miracolosamente, una rinascita generale: il boom economico, il cinema italiano che diventa il miglior cinema del mondo, l’arte contemporanea, con i vari movimenti: la corrente lnformale, l’Arte Povera o il movimento Concettuale. Tutti elementi che sono sbocciati da una catastrofe. L’idea era quasi quella di sentire il bisogno di una catastrofe, senza augurarsela ovviamente, per le conseguenze; che forse questi scossoni, anche così terribili in qualche misura siano necessari. Ne abbiamo in un certo senso bisogno come umanità, per risvegliarci. La globalizzazione ha creato una sorta di rete di protezione e a volte viene a mancare quell’emozione, quella tragedia che ci dà l’adrenalina

Luca: Da sempre nella storia è stato così.

Daniel: Secondo me c’è una lettura più profonda. È molto facile dire “Castaways without a Storm”, l’idea della tempesta e poi è arrivata la pandemia. In un certo senso, questo aspetto che chiamiamo profetico è interessante, ma non c’era al momento della scrittura dell’album. Non abbiamo pensato, sta arrivando qualcosa. Come diceva anche Francesco, la tempesta sta più nel ricercare qualcosa: la sensazione, perché manca. C’è questo torpore, abbiamo così tanta informazione, che in virtù di quanta è appiattisce tutto, è satura. Quindi si cerca disperatamente di provare forti emozioni, che però per la modalità con cui le cerchiamo, ovvero con la quantità e non con la qualità, rimangono comunque piatte sotto questo torpore.

Quindi, i semi della creazione di Castaways dove si possono rintracciare? [Le campane della chiesa di San Domenico iniziano a suonare…]

Stefano: Dio è d’accordo con noi, perché le campane stanno suonando! (NdR. Risata generale) Mi ricorda Lars von Trier, Le Onde del Destino, sta accadendo la stessa cosa, e questo è un bel segno!

Francesco: Credo che nasca dai nostri bisogni personali, è nato abbastanza spontaneamente.

Stefano: Quando fai qualcosa di artistico ti devi frugare dentro, e dato che siamo persone oneste, ahimè, allora quello che troviamo è ciò che assimiliamo nel nostro vivere quotidiano. Questa sensazione che abbiamo è nata spontaneamente da una frase di un brano, non è stata frutto di una riflessione, in un attimo poi da lì si è imperniato un po’ tutto il discorso.

Daniel: Si parla molto di connessione con la natura, della naturalezza delle relazioni, della ricerca e della difficoltà di comunicazione, come nel brano Castaways without a Storm.

Stefano: Poi vedi nell’artwork non c’è scritto niente… [mi ero portata dietro i vinili dei loro quattro album, e tutto il confronto è avvenuto con i preziosi cimeli in bella vista]. È quasi una sfida, per chi lo prende in mano, a sforzarsi di voler capire cosa ci sia scritto. Quindi, uno deve interpretare questo linguaggio, che essendo in Morse molto spesso non conosce, per capire cosa ci sia scritto, come se dicesse: “dimostrami che ce la metti tutta per interagire con me, per creare una connessione.”

L’artwork ti cattura. La copertina di un disco è la messaggera di ciò che contiene.

Stefano: È questo il casino! (NdR. risata collettiva)

È un viaggio! Come tutte le altre copertine dei dischi dei Sycamore, che sono state create da Stefano. Questa è una meraviglia, è in codice Morse! In cui si legge il nome del gruppo ed il titolo dell’album.

Stefano: Poi vedi, dietro c’è questo ologramma, è come se ti attirasse in un mondo misterioso che sta al di là dei codici e che devi voler conquistare.

Tutto meraviglioso: la doppia facciata esterna, un lato bianco ed un lato nero, che riporta il codice Morse intagliato nel cartone, in cui riluce la sottocopertina cangiante metallizzata.

Stefano: Fate un video così poi lo usiamo per promuovere il disco! (NdR. risata collettiva)

Ma lo stupore non finisce qui, tiri fuori il vinile fucsia, ovviamente “lato A” e “lato B” scritti in codice Morse, con la parte centrale che ripete il motivo del bianco e nero.

Stefano: Che è un po’ lo Yin e lo Yang.

Un labirinto, entri in un dedalo ma non ne vuoi più uscire, come nel vostro video A Maze, perché sei rapito dalla meraviglia.

Francesco: Esatto, diciamo che quello doveva essere lo scopo, è bene che sia riuscito.

Perché avete utilizzato l’alfabeto Morse?

Stefano: È un alfabeto che viene utilizzato più che mai in mare, c’era il discorso del “castaway” e mi è venuta questa connessione. Poi c’è il fatto che, per quanto tutti sappiano di cosa si tratti, pochissimi lo sanno leggere, me compreso.

Luca: È anche noto per le richieste d’aiuto, è un linguaggio ancestrale, il primo linguaggio a distanza. Il famoso S.O.S.

Daniel: Anche a livello acustico è riconoscibile. Inoltre, c’è l’ermeticità della cosa, che ti richiede un piccolo sforzo attivo per leggere. Metaforicamente il messaggio è: dovremmo tornare a fare un piccolo sforzo cosciente quando andiamo a fruire di arte, informazioni o di qualsiasi cosa, piuttosto che avere sempre tutto disponibile nella maniera più facile e diretta possibile.

Curiosità personale, l’ultimo brano di Castaways s’intitola Ibiza ’87. Perché?

Stefano: Chiedilo a Franco vai!

A questo punto riformulo la domanda chiedo a Franco: “Perché Ibiza ’87?”

Franco: Questa però è difficile come risposta…(NdR. Sorride). Partiamo dal fatto che tutti i pezzi, di base, hanno il loro titolo originale, il titolo di lavoro. Quando parti devi dare un nome ai brani per riconoscerli, e spesso sono nomi assurdi. In realtà, in questo caso Ibiza ’87 è stato il primo nome che gli abbiamo dato.

Francesco: Sinceramente è venuto tutto fuori da un’atmosfera.

Daniel: Ma non era un cocktail?

Io mi ero fatta il mio viaggio, forse i naufraghi sono approdati su un’isola, ma perché proprio Ibiza? …’87?

Francesco: ‘87 qualcosa di nostalgico…

Franco: Era più una sensazione, il mood…

Francesco: Leggermente patinato…

Franco: Chiaramente Ibiza ‘87 è tutto l’opposto, lo associ a tutt’altro rispetto al reale significato del brano. È un contrasto.

Francesco: All’inizio avevamo questo titolo provvisorio, con cui è nato il brano. Ci piaceva avere una canzone piano e voce. Abbiamo messo questo titolo inizialmente perché una sera, a Milano in un locale, abbiamo trovato un cocktail che si chiamava, Ibiza ’87 e c’era questa atmosfera …

Franco: È tutto strano, perché il brano dice: “C’è una stanza nella mia mente colma di nebbia”. Si tratta di una persona che è completamente bloccata nel suo mondo, mentre intorno a lui c’è festa.

Francesco: C’è questa nebbia, lui è da solo, chiuso in queste pareti da cui vorrebbe uscire, per quanto fuori ci sia il delirio, un momento di festa, ma è totalmente bloccato.

Il brano gioca sull’ossimoro.

Francesco: Assolutamente sì. L’ossimoro dà valore al pezzo, non lo affossa, crea delle perplessità e porta sempre qualcuno a chiedersi il perché, e magari a darsi una risposta. Questa reazione è quanto di più forte possa accadere in qualsiasi forma d’arte. Perlopiù, in un brano molto soft, che va a chiudere il tutto.

Sì, fra gli otto brani, come chiusura è perfetta. Il primo ascolto l’ho fatto in cuffia. Sono stata catturata dal suono di quel respiro costante, che si sente in sottofondo.

Luca: Che poi, in realtà, è il fruscio di un amplificatore fatto male.

Voi comunque siete degli alchimisti di suoni! Potreste essere benissimo gli Einstürzende Neubauten italiani. Tirate fuori musica da ogni cosa.

Stefano: Il top!

Gli otto brani che compongono Castaways sono tutti molto variegati fra loro. Questo mi rammenta la vostra peculiare caratteristica, quella di avere un approccio anarchico alla strumentazione. Trovo davvero difficile incanalarvi, perciò mi sono data la definizione di Sycamore sound. Nei vostri brani si respira prog, psichedelica, folk, etnica, elettronica, anche classica; basta pensare a Francesco al violoncello e Franco al violino, avete un duetto d’archi, i fiati con Daniel al clarinetto alto e basso…

Francesco: Anche il pop o il rock, cercando di portarlo ad un livello più fruibile come nell’ultimo disco. Approcciamo tutto con estrema libertà. Molte volte nasce un’idea che ci piace e la sviluppiamo per quello che il brano ci chiede.

Inoltre, soprattutto nei primi album avete utilizzato strumenti inusuali, come il bouzouki irlandese, le bombarde arabe, il darabouka. È riduttivo dare definizioni ma come vi descrivereste a chi non vi conosce?

Francesco: Sì, è sempre difficile. Ultimamente cerchiamo di mettere tutto dentro un generale art rock o alt rock, quindi alternative. Un approccio libero, però facendo sempre art rock, art pop. Alla fine non è che facciamo cose astruse, sono sempre canzoni.

Francesco, tu dici che non sono astruse, io invece credo che sia davvero difficile trovare un gruppo come il vostro nel panorama italiano.

Stefano: Mah, infatti! Questo è un problema nostro…

Luca: Però, la percezione dall’interno è diversa ovviamente, se sono cose tue, ne sei meno consapevole.

Francesco: Sì, lo credo anch’io. Noi, facendola in inglese, ci riferiamo soprattutto alla musica fuori dall’Italia. Come radici d’ascolto veniamo da quel mondo lì, per questo motivo abbiamo deciso di farlo in inglese, ci viene più spontaneo. Chiaramente adoriamo tutti la musica italiana, però ce l’abbiamo un pochino meno dentro, siamo tutti figli dei Beatles e di tutto quel mondo, dei Radiohead con altre infinite cose più sperimentali. Sì, comunque è difficile trovare in Italia una band con un approccio simile al nostro.

Stefano: È più facile trovarle nel passato, nel prog italiano di inizio anni ’70 puoi trovare un sacco di contaminazioni interessanti, gruppi come Napoli Centrale, Osanna, Balletto di Bronzo. Battiato stesso, ai suoi esordi, era piuttosto indefinibile; per fortuna non si sapeva dove collocarlo.

In virtù del vostro nome, siamo tutti sintonizzati sull’Era del Sicomoro, quindi possiamo attraversare la dimensione spazio-temporale e fare un balzo a ritroso nel 2015, quando fu pubblicato A Perfect Laughter. In questo lavoro il fulcro verteva sul dialogo e sul rapporto fra l’uomo e il Divino. Ne è portavoce pure l’artwork, che raffigura una spirale, simbolo del divino.

Stefano: Questa spirale in realtà è la foto di una testa, quella di Dalia, la mia bambina, appena era nata. Questa foto non l’ho toccata, è stata solo elaborata in modo psichedelico per avere più assonanza con il disco. Se vedi l’originale, è proprio un vortice al centro della testa, come se il concetto della spirale sia già in noi, questo è buffo, no?

Francesco: Perché ha l’universo in testa.

Stefano: Penso che ce l’abbiamo un po’ tutti.

Francesco: Nella parte interna c’è raffigurato l’iride, ci sono vari richiami, il ritorno del cosmo nel corpo umano, come essere parte del Tutto; ed è questo che Stefano ha messo nella grafica. In quel disco sin dall’inizio abbiamo voluto fare un concept album, ogni pezzo è un dialogo fra l’uomo ed il divino sotto vari punti di vista, senza alcuna risposta su niente, perché siamo tutti estremamente spirituali ma nessuno di noi è religioso. Ci facciamo sempre tutti molte domande senza avere alcuna risposta, tanto quelle non le avremo mai. Però è bello farsi delle domande.

Stefano: Il gioco della grafica… è come se la risposta fosse nella sostanza profonda delle cose, ma non nel pensiero e nel linguaggio umano, che non è abbastanza affinato e raffinato per affrontare questi temi così profondi. Noi non siamo veramente connessi con il cosmo, con l’universo. Interpoliamo con il nostro linguaggio e pensiero, creiamo dei modelli, che sono spesso molto lontani dalla realtà vera ed oggettiva delle cose. Che discorso del cazz… cancella tutto! (NdR. Risata generale)

Francesco: Io credo che siamo in qualche modo connessi, perché siamo figli delle stelle, ma arrivare a certi livelli non ce la possiamo fare.

Stefano: Il nostro pensiero è approssimazione e la realtà è molto lontana dal modello che ricreiamo nella nostra mente. Ragazzi siamo arrivati a dei livelli! Un’intervista meravigliosa! (Ndr. Risata generale)

Qui si parla di una “risata perfetta”, voi come la raggiungete? [Nota esterna esplicativa: l’ispirazione del titolo trae la sua origine dalla poesia “Roll the Dice” di Charles Bukowski, di cui una parte recita: Sarai solo con gli Dei/ …cavalcherai la vita fino alla risata perfetta”]

Stefano: La risata perfetta, in quanto tale, non la si può raggiungere mai, e questo è il problema!
Bukowski si immagina di raggiungerla seguendo la via della perdizione, dell’annullamento totale dell’autocontrollo, dell’abolizione della dignità umana (nel senso comune del termine), guadagnandosi la propria totale indifferenza a qualsivoglia giudizio altrui. Bukowski, in qualche strana misura, tende all’elevazione massima, sinonimo di connessione con il divino, la stessa alla quale tendono i maestri Zen, ma perseguendola in direzione opposta, attraverso il gesto estremo di un’autodistruzione decisamente più occidentale e metropolitana.
Per noi comuni mortali invece non c’è speranza di una risata perfetta.

Questo concetto mi fa anche pensare al vostro brano, Happy, contenuto nel vostro primo album.

Francesco: Sì…sì, assolutamente, il liberarsi dai vincoli. Poi anche nel brano Frowning Days, Odd Nights, contenuto in A Perfect Laughter, in cui si dice, guardi la natura sovrasta qualsiasi cosa abbiamo fatto o qualsiasi pensiero che puoi fare o costruire, comunque con qualche anno tutto viene rimangiato e qualsiasi cosa tu provi a fare, alla fine, è uno scherzo di fronte a tutto quanto. Quindi, ci immaginavamo questo Dio che sta lì e si diverte guardandoci mentre ci scervelliamo sul perché delle cose. Alla fine, siamo qua e magari ognuno dovrebbe semplicemente fare il suo percorso, anche più leggermente. Comunque, questa divinità ti guarda e ride di fronte al tuo cercare.

Come sul video di 7!

Francesco: Esatto, proprio così. Ci siamo immaginati un Dio burlone.

Stefano: Sì, una sorta di teaser che rompe le scatole, quasi un Joker.

Fluendo ancora a ritroso ci troviamo nel 2014, e incontriamo il vostro #1 Remixes/Reworks. Una riscrittura che ha coinvolto artisti provenienti da generi diversi, perché abbiamo la partecipazione di Teho Teardo, Akron Family, Julie’s Haircut, Aucan e Vadoinmessico. Com’è nata la collaborazione con loro?

Stefano: Amicizie, connessioni con la casa discografica. Ad esempio, Teho Teardo non lo conoscevamo, ma i ragazzi della Audioglobe, per cui lui usciva come distribuzione, ci dissero che ci stimava molto. Provammo a chiedergli di collaborare e lui accettò subito, in maniera molto carina fra l’altro, chiedendoci veramente una miseria giusto per pagare il quartetto d’archi. Con i Julie’s Haircut c’eravamo beccati in giro per concerti più volte, inoltre abbiamo fatto un baratto: loro ci hanno fatto un remix e poi noi ne abbiamo fatto uno a loro.

Sì, Tarazed su Ashram Equinox.

Stefano: Sì, quello! Agli Akron Family aprimmo un concerto al Locomotiv, diventammo amici con Miles Seaton, che purtroppo non è più con noi, fu molto ganzo ed accettò la cosa.

Francesco: Il remix è nato alla fine del primo disco, eravamo contenti e volevamo fare qualcosa che chiudesse questo periodo.

Stefano: Poi, il disco di remix era già allora anche un’idea un po’ démodé, ed il fatto che fosse demodé era divertente.

Daniel: La versione moderna del remix è in realtà il sampling: un D.J. o un produttore che usa un groove, un estratto dal pezzo di qualcuno, inserisce qualche battuta che diventa parte strutturale di un tuo pezzo. È una cosa che prende vita utilizzando anche dei pezzettini di altri.

Luca: Sì, come stava dicendo Daniel, quello di Aucan è proprio un remix per antonomasia.

Nel remix abbiamo il brano How to Hunt a Giant Butterfly in versione cantata, che nel vostro lavoro d’esordio era strumentale. Ovvia riflessione: ascoltare un vostro disco e partecipare ad un vostro concerto sono due esperienze sensoriali completamente diverse, spesso i brani non vengono solo riarrangiati, ma proprio rivestiti. Questa non è una caratteristica comune a tutti gli artisti. Da dove nasce questa esigenza?

Francesco: Perché è musica di cui fruisci in due luoghi totalmente diversi, opposti. L’album è un qualcosa che tendenzialmente ascolti da solo, non c’è quel bisogno di coinvolgimento fisico, non ci sono determinate esigenze che hai quando partecipi ad un live.

Luca: Questo vale anche per noi stessi che siamo sul palco, non solo per chi fruisce della musica. C’è una carica diversa, quando sei in studio a lavorare c’è una situazione più intima.

Stefano: Nel disco si ha una situazione più cerebrale, nel live più muscolare, sono due parti del corpo completamente diverse. Non è sempre per tutti così, ma nel nostro caso sì. In un disco tu hai un controllo totale, sul live no. Qui ci vuole spazio per tutti, è anche necessaria un’energia… una pressione diversa, che può essere anche inferiore; perché deve far sì che in quel momento ognuno di noi si senta a proprio agio, che non è la stessa cosa che si ha nel disco. Con il tempo, tra l’altro, mi rendo conto che abbiamo perso un po’ d’imprevedibilità e bisogna riguadagnarsela subito.

A marzo si celebrerà il decennale del vostro lavoro omonimo d’esordio, fra l’altro l’artwork ricevette anche la nomination per il Best Art Vinyl del 2013. Qual è il brano di questo disco a cui siete più legati da un punto di vista emotivo?

Stefano: Il primo.

Binding Moon…

Stefano: Sì, perché è stato il primo. È da lì che scherzando è nato tutto. Fra me e Francesco ci corrono un sacco d’anni, ma adesso sembra quasi assottigliata la distanza. La follia di dire, vieni a casa mia per provare qualcosa, mi avrà preso per un pedofilo chissà… (Ndr. Risata collettiva), e venne fuori questa cosa così magica, proprio perché non era minimamente preventivabile o prevedibile. Poi tutto il resto è nato di conseguenza, Franco ha iniziato subito a collaborare al violino per il secondo brano del disco, At the Biggest Tree. Poi, per How to Hunt a Giant Butterfly, ci serviva un synth, ne programmò una parte, che poi è rimasta quella lì. Lui lavorava già con me con i Kiddycar. Poi Francesco viveva con Davide Andreoni, che ora non fa più parte del gruppo, vennero a vivere di fronte alla porta di casa mia, proprio uscio e bottega. Spesso ci s’incontrava e ci scambiavamo idee, c’erano confronti, si lavorava costantemente a qualcosa. Coinvolgevamo nel progetto le persone a noi più vicine, in modo molto leggero e spontaneo, ma senza ancora pensare ad un gruppo, ci piaceva più pensarla come una “factory”. Per il resto era un progetto che poteva anche finire al terzo pezzo, poi a fine disco ci siamo trovati quasi costretti a tirare su una band. Ci divertivamo tantissimo, nel nostro ensemble c’era un’inedita e marcatissima varietà sociale, generazionale e culturale, ma, nonostante ciò, tutto sembrava perfettamente armonizzato.

Francesco: Da un punto di vista emotivo, sinceramente, anche io direi quella. È un brano che continuiamo a fare sempre dal vivo, è una traccia che ci piace sempre riproporre, ci emoziona tanto farla ed è quella a cui siamo legati di più. Alla fine, sono legato a tutti i pezzi, ma Binding Moon è il brano più rappresentativo, da cui è nato tutto.

Nel vostro repertorio figurano anche dei brani inediti, che vi furono commissionati in occasione del cinquecentenario della nascita di Giovanni Vasari, per la mostra Il Primato dei Toscani nelle Vite del Vasari. Fra l’altro l’evento si tenne proprio qui ad Arezzo, nella Basilica inferiore di San Francesco. Com’è nata questa occasione?

Francesco: Sì, è vero. Questa partecipazione per noi è stata una vera sorpresa. L’Agenzia che faceva la mostra ci chiese se volessimo lavorare a questo progetto in cui erano esposte delle opere incredibili, da Michelangelo, a Giotto, ovviamente anche Piero della Francesca. Abbiamo provato e sono rimasti molto soddisfatti. È nata così, abbastanza spontaneamente, come prova. Pure in quel caso, ci siamo messi a tirar giù dei pezzi, sempre cercando un approccio totalmente libero. C’erano dei brani psichedelici, appartenenti ad un altro mondo, rispetto a quello che è, di solito, il mondo delle mostre estremamente classiche. Si è quindi creato questo ossimoro fra la musica e le opere, un qualcosa di evocativo. Io sono stato contentissimo.

Voi avete una cura artigianale nei vostri lavori perché fate tutto in casa: la registrazione avviene al Sycamore Age Studio, il mixaggio, mastering e produzione è di vostra competenza. Questo vale anche per la grafica dei supporti fisici…

Stefano: Sinceramente per l’ultimo disco lo abbiamo fatto fuori il mastering.

Francesco: Sì. Però, il mastering è veramente l’ultima chicca, in cui passi tutti i pezzi per farli accomunare o dargli quella pompa finale in più. Tutto il lavoro che è quello del mixaggio, la produzione, l’arrangiamento, la grafica è fatto tutto in casa.

Avete la consapevolezza del lavoro di dedizione che mettete in tutto questo, o per lo meno, vi sentite degli artigiani?

Stefano: Io sì. Assolutamente sì.

Francesco: Sì, nel bene e nel male.

Stefano: Io per scelta. Chiaramente molti pezzi non hanno la rifinitura del prodotto industriale, che è perfetto perché è frutto di una catena di montaggio. Molti dei nostri pezzi sono spontanei, anche con dei difetti, se vuoi, e questo secondo me me è un valore aggiunto. Io sai non ho mai studiato musica, né tanto meno tecnica del suono. Ecco, per farti un esempio che mi piace sempre fare: un tecnico del suono mira all’orecchio, a me d’istinto mi viene da mirare diretto al cuore dell’ascoltatore.

Luca: [Prendendo in mano la copertina di Castaways] Questi fori sono serate di aspirapolvere e compressore, eh!

Daniel: La musica è artigianato, è molto fisica come cosa. Si pensa sempre ai musicisti come a degli alti intellettuali, uno può più o meno sapere un sacco di cose, ma alla fine è il fisico che lavora, sono le mani, il fiato…

Stefano: Non è solo fisica, è pure unica, perché il prodotto vero, artistico, quando nasce, nasce da un artigiano, massimo due o tre. Le prime note che metti insieme, lo fai in maniera artigianale. La creazione è artigianale, è la commercializzazione che diventa industriale. A volte delle coincidenze, delle pure casualità ti danno un’idea eccezionale, che spesso nasce dal caso.

Luca: Fa sempre parte di quel lavoro che si faceva nelle botteghe, poi è dalla casualità che, a volte, nascono le cose migliori.

Francesco: È anche importante lasciare che un evento possa succedere, perché quando si ha troppo controllo, non si ha ascolto per queste casualità. Noi proviamo vari approcci per far sì che si verifichino. Molte volte ti stupisci tu in primis di una cosa, avendo meno controllo. Lasciare che le cose accadano.

Intanto dal corridoio si palesa uno stupendo gattone nero, Pepper, come il Sergente, mi chiedo? Sarà sicuramente così, “Siamo tutti figli dei Beatles”. Presa dal vortice delle risposte mi sono dimenticata di chiedere ai ragazzi notizie sui prossimi concerti. Il nuovo calendario è stato definito e la navicella Sycamore si sta preparando per il lancio, venerdì 11 marzo dalla base dello Spazio Webo di Pesaro. Sarà quasi luna piena quella sera, un’occasione perfetta per sentire dal vivo Binding Moon che “galeotta fu” per la nascita di questo progetto artistico.