I N T E R V I S T A


Articolo di Francesca Marchesini

Esce il 6 maggio Giuramenti, settimo album della band alt-rock Ministri. In occasione della pubblicazione di questo nuovo lavoro, ho avuto modo di parlare con Davide Autelitano (voce, basso), Federico Dragogna (chitarra) e Michele Esposito (batteria) dell’energia che la musica dal vivo è finalmente tornata a far scaturire e di cosa significhi questa nuova tappa nella loro carriera fatta di cinismo verso l’industria musicale – indimenticabile la moneta da un euro contenuta nella copertina del debutto I Soldi Sono Finiti (2006) –, rottura degli schemi e amore per De André.

Il nuovo album, Giuramenti, arriva a un anno di distanza dall’EP Cronaca Nera E Musica Leggera. Com’è stato lavorare a questo album rispetto al precedente EP?
I due dischi sono nati assieme, nella stessa sessione di registrazione – quindi noi li sentiamo praticamente come un tutt’uno. Per questo nella versione CD di Giuramenti sarà anche incluso il precedente EP. Abbiamo deciso di dividere il materiale in due pubblicazioni, condensando nel primo EP i brani più urgenti e lasciando nell’album lo sviluppo di un discorso più ampio.

Facendo riferimento al vostro percorso più recente, a Cronaca Nera E Musica Leggera (penso alla figura di Nina citata nel brano Peggio di niente) e alla reinterpretazione di Inverno (cover contenuta nella raccolta Faber Nostrum ndr), bisogna dare per scontato un legame con l’opera di De André. Quali altri artisti vi ispirano? E soprattutto, quali considerate vicini al risultato ottenuto con Giuramenti?
De André è sicuramente un riferimento, non solo per la sua opera, ma anche per il modo con cui ha affrontato il fare musica nella sua vita e in questo paese. Battiato è sicuramente un altro faro: nell’album torna sia nelle tematiche (come nel rapporto, ad esempio, tra il tempo del mondo degli uomini e quello dell’universo) sia nella parte più strettamente musicale (come nel finale dell’album, la coda di Comete, che è una citazione involontaria del finale di La Cura).

A proposito del singolo Scatolette avete detto: «parla della crisi di una delle cose che ci sono più care – la musica». Verrebbe subito da pensare al blocco imposto alla musica dal vivo, era a questo che facevate riferimento?
No, anche perché Scatolette è un brano del 2019, anche se non sembra. Chi fa musica è sempre più un megafono, un ripetitore, per chi vuole vendere qualcosa, e buona parte del business correlato alla musica oggi si basa su questo. Ci sono generi, come l’hip hop, in cui la rivalsa, anche semplicemente economica, è un valore e giustifica qualsiasi scelta. Pian piano questo approccio sembra si stia estendendo alla musica tutta, appunto «tradire non è più gran cosa/se ti ripaga della pioggia presa». Viene giusto da chiedersi cos’andrà perso in questo grande mutamento: ora che la musica in sé è praticamente gratuita, il nostro sforzo sta tutto nel continuare a farla sentire come preziosa.

Parlando di musica dal vivo, l’uscita di Giuramenti segue un tour primaverile di concerti, il primo da tre anni all’interno dei club. Com’è stato tornare a esibirsi, dopo tanto tempo, in una situazione che si potrebbe definire quasi normale?
È stato bello ed emozionante: ricordiamo tutti i concerti che abbiamo fatto in questi quindici anni, e sono tanti, ma questi della ripartenza occuperanno sicuramente un posto d’onore nel nostro cuore. Vedere così tante persone non avere più paura, vederle abbracciarsi, schiacciarsi, spingersi, sudarsi addosso, cantare a pieni polmoni, e sapere di essere in qualche modo la miccia di tutto ciò, non ha davvero prezzo.

Nel singolo Numeri cantante «E si guarda dalla feritoia/Per vedere cosa succede fuori/Finché non ci si annoia» e poi in Domani parti dite «Certificati che produciamo per farvi contenti/Poi nelle nostre caverne facciamo i nostri disegni/sapete tutto di noi ma non potete venire a vederli»; verrebbe da pensare a un deliberato attacco al mondo social…
Le feritoie erano le finestre delle nostre case, da cui ci affacciavamo durante il primo leggendario lockdown, ma come dici tu è anche contemporaneamente quella fessura da cui vediamo (e crediamo di capire) il mondo che corrisponde ai nostri profili social. Idem dicasi per il passaggio di Domani Parti che citi: si parla di tutti quei certificati di esistenza che postiamo continuamente (noi felici, noi con monumento, noi con piatto al ristorante), e, per contrasto, si parla di quello che veramente ci importa fare e che ci appassiona, quella passione che nessun algoritmo potrà mai capire fino in fondo. Entrambe le cose sono in effetti il contenuto dei social stessi, che sono solo strutture incapaci di distinguere cosa facciamo per posa e cosa per amore. E la delusione massima sta nel momento in cui si scopre, nella seconda strofa di Domani Parti, che quei disegni fatti nelle caverne nessuno vuole “venire a vederli”.

Parlando di realtà digitale e concerti, leggevo che Jack White vorrebbe vietare l’uso dei cellulari ai propri live; cosa pensate di questa idea?
Non ci piacciono le regole e le imposizioni, a maggior ragione adesso dopo i due anni che abbiamo passato. C’è da dire che ai nostri ultimi concerti, c’era una tale bolgia che tirare fuori il cellulare diventava piuttosto complicato. Più in generale, forse auspichiamo che sia la gente stessa a preferire luoghi in cui la fotocamera del cellulare non è gradita – come, per esempio, succede già in molte delle più note e celebrate discoteche di Berlino, dove la fotocamera viene sostanzialmente coperta con un adesivo, e chi lo stacca è prontamente cacciato.

Documentari è la canzone che più rimanda all’alt rock italiano e che trasmette quella voglia di ribellarsi all’ordine costituito un po’ adolescenziale presente da sempre nei vostri brani. Nonostante sedici anni di carriera, la rabbia non sembra essersi esaurita…
Molti dei nostri pezzi musicalmente più arrabbiati non stanno in realtà comunicando letteralmente nulla di arrabbiato, anzi spesso raccontano cinismo e rassegnazione. Ma la magia di certa musica credo sia proprio questa: accendere l’energia, metterla in circolo e lasciare che anche i nostri pensieri più scuri abbiano spazio, possano sfogarsi. Documentari canta di lavarsi il cervello guardando documentari, di verità impossibili da raccontare, di attualità insostenibile, di appassire o diventare come i propri genitori – eppure ascoltandolo l’effetto che genera è il contrario, alzarsi dal divano e cercare di decidere il proprio destino.

L’album si chiude su Comete, che non trasmette sicuramente rabbia, ma neanche rassegnazione come quel «nessuno le vede o dà loro un nome» suggerirebbe. Forse una dichiarazione d’affetto a quelli che vi seguono, incastrati tra la voglia di riscatto e l’incombere della realtà e della vita adulta?
Sì, è sicuramente un pezzo affettuoso come dici tu. Nella grande narrazione capitalista sulla positività, sul lavoro su sé stessi, sulla ricerca della felicità e chi più ne ha più ne metta, ci si dimentica che la maggior parte di questi obiettivi sono semplicemente irraggiungibili per la maggior parte delle persone. Comete che volano basse appunto, esistenze che nessuno vede e che giorno dopo giorno si sentono sempre più inadatte all’agenda di realizzazione del sé prevista dalla nostra società. Persino, semplicemente, amare potrebbe essere molto più complicato di quanto ci viene raccontato.