I N T E R V I S T A


Articolo di Francesca Marchesini

«Praise to the glory of loved ones now gone», così recita il secondo verso di The Eternal, brano dei Joy Division contenuto in Closer. I milanesi Limonov non solo hanno deciso di proporre una loro versione di questa canzone, ma si sono spinti fino alla “riesumazione del corpo” del frontman della band attraverso la tecnica del deepfake. In occasione dell’uscita del videoclip Ian Curtis feat. Limonov, ho parlato con Pietro Lafiandra (voce), Andrea Rossini (tastiera) e Samuele Sala (batteria) a proposito della loro non-appartenenza alla scena post-punk italiana e all’impatto che le tecnologie video hanno avuto sulla produzione creativa dei Limonov.

Come nasce il progetto Limonov?
Per noi scrivere i brani è un processo estenuante. Non troviamo piacere nel farlo, è una sorta di autoterapia a cui ci costringiamo. Nel 2019 abbiamo deciso che volevamo costruire una nostra grande narrazione, un nostro modo di affermare una visione del mondo e provare a stare meglio, insieme. Andrea, il nostro tastierista, e Pietro, il nostro frontman, avevano letto Limonov, il romanzo di Carrère su Limonov, appunto, e hanno pensato che nessuno più di questa figura potesse rappresentarci. Non per una questione di contenuti, sia chiaro. La figura è controversa, molte posizioni politiche discutibili. È una questione di forma. Siamo spaventati dall’ironia dilagante. Ci spaventa l’assenza di narrazioni militanti, di atti estremi, la volontà, anche eccessiva, di fondare qualcosa. Limonov ha passato la sua intera esistenza a costruire una propria mitologia, una mitologia dell’individuo, certo, ma la sua era una lotta costante per affermare la vita. Anche noi stiamo lottando per affermare qualcosa, che sia anche solo la nostra visione del mondo. Fondamentalmente è narcisismo. Probabilmente siamo dei moralisti.  

Il vostro profilo IG riporta la dicitura “post-punk per famiglie”. Quanto vi sentite parte della foltissima e multiforme scena revival che ha acquisito fama negli ultimi anni? Mi riferisco a gruppi come Fontaines D.C., Molchat Doma, Soviet Soviet… c’è qualcuno di questi che considerate di ispirazione o avete più a cuore i colossi del genere?
Non ti nascondiamo che è una definizione ironica, forse anche autoironica, ma principalmente arrabbiata. Questo revival ha fatto emergere un’idea di post-punk che di “post” non ha proprio niente. Certo, amiamo i Fontaines D.C., ci piace il loro approccio al palco, la retorica, l’estetica. Ascoltiamo gli IDLES. Ma questi sono gli esempi virtuosi: c’è tutto un sottobosco fatto di cliché ed epigoni. Noi tentiamo di discostarci da quello che ormai ci sembra un format per famiglie, una scatola di merendine con un bel packaging e poco più. Suoniamo con synth, tastiere, batteria elettronica, la chitarra è ridotta al minimo. Ad Andrea piace lo slowcore. A Pietro la techno. Sam è più sull’art-rock. Non sappiamo neanche se facciamo post-punk. Chiaro che i Joy Division sono un’ispirazione, ma lo sono per tutti. È come dire Kubrick per il cinema, o Philip Roth per la letteratura. Noi guardiamo da altre parti: These New Puritans, Low, i National, i Massimo Volume. Anche se, di sicuro, il nostro produttore, Luca Urbani, è un maniaco dei New Order…

Molti nomi noti del filone post-punk, shoegaze, dark- e coldwave nostrano si approcciano alla scrittura adottando l’inglese, i vostri testi invece sono tutti interamente in italiano. Scelta consapevole o semplice conseguenza del vivere e produrre musica nell’area di Milano?
Non è una semplice conseguenza, magari lo fosse. Cantare in inglese è un altro cliché del post-punk. E poi a Milano è già pieno di band che lo fanno… Il nostro è un approccio molto carnale. I testi hanno più a che fare con la prosodia. A volte basta un verso, e il messaggio passa uguale. Thom Yorke ci ha fatto una carriera biascicando, anche in studio, eppure nei brani dei Radiohead si ha sempre la sensazione che la sua voce veicoli un’emozione in alta definizione, cristallina. È una questione di intenzione, più che di contenuto. Però, sì, l’italiano ci avvicina a quello che siamo, al nostro quotidiano, alle nostre relazioni. Quando ci odiamo lo facciamo in italiano, e quando ci amiamo facciamo lo stesso. Perché mai dovremmo scrivere “I love you”? Non lo pensiamo. Pensiamo “ti amo”, ed è tutta un’altra questione.

A inizio anno è uscito il vostro secondo EP, Tutto sta svanendo, che tra le nuove proposte contiene anche una cover del brano The Eternal dei Joy Division. A differenza dell’EP d’esordio Imparare a dormire, per la realizzazione del disco avete optato per la registrazione in presa diretta…
È un EP che è nato come progetto visuale. Volevamo mostrare la nostra estetica, il nostro approccio al palco. Volevamo far vedere la nostra carne. È un EP che è il frutto dell’inizio della nostra collaborazione con Luca Urbani ed è stato un modo per chiudere il periodo iniziale del nostro progetto. Abbiamo cambiato formazione, turnisti. Luca ci ha preso e ci sta trainando verso cose molto diverse, verso una nuova carne. Siamo già proiettati verso un nuovo mondo, un ecosistema che ha a che fare con l’elettronica, e non potrebbe che essere così visto il percorso di Luca coi Soerba a fine anni Novanta. Se riusciremo a fare un album bello anche solo la metà di Playback potremo considerarci molto fortunati.

Come band siete attivamente coinvolti anche nella realizzazione dei vostri videoclip musicali. In riferimento a questo, vorrei chiedervi di parlarmi del lavoro fatto con Bimbo negativo e l’introduzione del deep fake in campo musicale.
Tutto nasce dal fatto che il nostro frontman sta facendo un dottorato in Visual Studies, cinema e nuove tecnologie, per semplificare, concentrandosi proprio sui deepfake. Ecco, ci sembrava che questa tecnologia, all’epoca ancora in nuce, dialogasse alla perfezione col nostro primo singolo che parlava di erosione identitaria, di perdita delle radici, di Doppelgänger. Abbiamo preso il volto di Charles Manson da alcuni video in bassa definizione e lo abbiamo applicato su quello di Andrea grazie all’intelligenza artificiale. Il risultato è stato quello di generare un essere deforme, impreciso, con solo i contorni, un po’ uomo e un po’ mostro, ed era esattamente ciò di cui parlava il nostro brano. È stato il primo singolo in Italia a introdurre questa tecnologia. Pensavamo che sarebbe arrivata in fretta anche da noi. Nel resto del mondo ci hanno lavorato Kendrick Lamar, i Foo Fighters, Paul McCartney con Beck e ci sorprende che, in Italia, qualche grande produzione non ci abbia ancora lavorato. Non capiamo se è mancanza di visione o disinteresse verso la forma videoclip. Con un deepfake ben fatto, qualcuno con molti più mezzi di noi farebbe un grande video, e probabilmente molte visualizzazioni.

Bimbo negativo non è però l’unico brano a cui è stato applicato il deep fake. Tornando a parlare della vostra versione del brano The Eternal dei Joy Division, lo scorso 18 maggio è stato pubblicato il videoclip della cover in cui avete “riportato in vita” il frontman Ian Curtis. Come si è sviluppato il progetto? E, considerando come i fan della band mancuniana tendano a rifiutare qualunque tipo di rinnovamento quando si parla del lavoro del gruppo (penso all’odio riversato alla serie di videoclip Unknown Pleasures: Reimagined realizzata per celebrare i quarant’anni dell’album), come è stato recepito questo tipo di lavoro?
Siamo abbastanza abituati agli insulti. Ed è una cosa buona, ci piace l’idea di lottare contro il buon gusto. Nessuna retorica: sapevamo, approcciando la figura di Ian Curtis, che stavamo toccando una figura complessa, gentile, drammatica e al quale comprensibilmente, le persone sono attaccate come a un santo. Sapevamo che avremmo offeso qualcuno. Ma abbiamo studiato Ian Curtis, abbiamo letto le biografie sui Joy Division, i suoi testi, guardato i film. Ian Curtis forse era davvero un santo: la sua voce sembra provenire da un altro mondo, sembra essere a contatto con qualcosa che ha a che fare con l’aldilà, e lo sembra da sempre, da ben prima della diagnosi del Grande Male, del suicidio… Ci sembra che sia una peculiarità dei Grandi autori a contatto con la morte. L’ultimo David Bowie, Ghosteen di Nick Cave. La loro voce sembra provenire dall’oltretomba. Il nostro è un lavoro di forma e “riportando in vita Ian Curtis”, ma privandolo della sua voce, volevamo proprio evidenziarne l’assenza, il vuoto che le reliquie lasciano attorno a lui, condannandolo a ripetere gli stessi gesti per l’eternità. La danza dell’epilessia, lo sguardo vitreo, la presenza fantasmatica. Non è un lavoro su Ian Curtis, ma sul cinema, sul digitale. Ian Curtis feat. Limonov – The Eternal è stato generalmente recepito in maniera molto positiva. Chiaro, qualcuno ci ha accusato di aver usato il volto di Sam Reiley, che interpreta Ian Curtis in Control di Anton Corbijn, pensiamo a causa dell’uso del bianco e nero, e altri ci hanno scritto che non si dovrebbero scomodare i morti. Sinceramente, è una polemica che non ci interessa.

Photo © Beatrice Manini