R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il termine crooner, in italiano, viene abitualmente tradotto come “cantante confidenziale” anche se il verbo “to croon”, in inglese, significa “canticchiare, cantare sottovoce”. Si allude quindi ad un’espressione delicata, non aggressiva, in cui valga molto di più la comunicazione emotiva che non la pura potenza vocale. Possiamo ricordare facilmente alcuni grandi cantanti del passato, crooner che hanno contribuito alla storia del jazz, come Sinatra, Tony Bennett, Dean Martin, Nat King Cole per citarne alcuni tra i più famosi. Ed anche alcuni nomi risonanti ai giorni nostri, come Michael Bublè, Kurt Elling, così come le voci femminili di Diana Krall o Patricia Barber ed altri ancora. In Italia, chi come me ha qualche anno in più sulle spalle, si ricorderà di Nicola Arigliano, Johnny Dorelli, Teddy Reno, passando per Fred Bongusto fino al contemporaneo Paolo Conte. Insomma, la tradizione di questa tipologia di canto “riservato”, pur cedendo palmi di terreno all’avvento del soul e del rock, non è mai scomparsa ed ha continuato a sussistere adattandosi spesso a vivere anche sottotraccia sostenuta da tutti coloro che hanno contribuito a crederci e ad appassionarsi a questa morbida forma di espressione musicale. Chi certamente ci scommette ancora molto è Max Giglio, cantante, musicista e compositore torinese, che ha vissuto gran parte della sua formazione e della crescita artistica tra la propria città natale e Genova. Questo nuovo album Cities and Lovers è laseconda prova discografica in assoluto di Giglio, dato che il suo vero esordio è stato all’interno del Progetto Sabià, con un lavoro, Arco-Iris (2018), dedicato alla musica brasiliana. In questo ultimo disco si racconta una sorta di meta-mondo in cui gioie e tristezze vengono mitigate e rese piacevolmente sostenibili, dove gli eccessi sono banditi a favore di una visione un po’ romantica della vita ma non ingenua né condotta con languori eccessivi e nella quale l’onestà e la sincerità intellettuale sono riferimenti ineludibili. In questa dimensione ideale dell’esistenza, Giglio si muove attraverso un’interpretazione delicatamente demodè, con una voce intrigante condotta su timbriche medio-scure, senza toni cavernosi e capace anche di salire d’intensità quando occorre. Naturalmente l’intonazione è quella precisa di chi il canto l’ha studiato a lungo e non lo ha solo sperimentato istintivamente. In alcuni momenti, soprattutto quando il testo è scritto in italiano, nel modo in cui Giglio insiste arrotondando certe vocali, mi sembra di cogliere delle inflessioni che mi hanno fatto pensare al modo di cantare di Luigi Tenco.

L’album si traduce quindi in un intrico di impressioni, fatto di luoghi e città diverse, alcune delle quali rimandano oltreoceano verso il mondo latino a cui Giglio pare essere culturalmente molto legato. Si tratta di frammenti, monadi impressionistiche accumulatesi nel tempo dove tradizioni italiane, americane e latine trovano ora un’equilibrata collocazione tra le note di questa musica così intima e personale. Attorno a Giglio si muovono alcuni musicisti dell’area torinese come Fabio Gorlier al pianoforte – indispensabile per le sue efficaci armonizzazioni – Cesare Mecca alla tromba, Simone Arlorio al clarinetto, Veronica Perego al contrabbasso e Francesco Brancato alla batteria. Giglio è autore o comunque co-autore di sette brani su otto, mentre c’è una traccia firmata da Charles MIngus e Joni Mitchell che viene reinterpretata con un dinoccolato senso dello swing e un bell’intervento alla tromba di Mecca.

Iniziamo l’ascolto con Tuesday Dancers, con tanto d’introduzione congiunta tra voce e piano, pochi accordi significativi che tracciano la linea di quello che sarà un’appagante esperienza d’ascolto, uno swing moderato di forte ispirazione americana e un ficcante walking bass con tanta voglia di danza. Viene evocata un’atmosfera che rimanda al musical ed ai suoi connotati teatrali, in più un assolo di tromba veramente apprezzabile, seguito dall’essenziale e melodica passeggiata del contrabbasso. Se era una boccata di joie de vivre, quello che in sintesi Giglio voleva comunicare, bisogna prendere atto che è proprio riuscito nel suo intento. Autumn in Torino è una ballad che si scioglie tra un po’ di malinconia ed un vago senso di mistero. A parte qualche piccola nota oleografica nella pronuncia – quel “Valentinoo” alla Dean Martin – l’inizio tra contrabbasso e spazzole e soprattutto la tromba sordinata sullo sfondo sono una piccola meraviglia. E non bisogna dimenticare il pianoforte che riesce ad infilarsi tra i versi cantati da Giglio con molta naturalezza. Butterfly and rain vede all’opera il testo proposto dall’Autore su una musica che a dire il vero procede con qualche piccola legnosità. Ma a nobilitare il tutto c’è la tromba eccellente di Mecca, un giovane strumentista non ancora trentenne che si può ascoltare anche in altri dischi realizzati con Massimo Faraò tra cui uno fresco fresco uscito da poco (Ducky is in Town) dove Mecca è in compagnia, oltre che con lo stesso Faraò, anche con il sax di Sophia Tomelleri. Città Sospese è una sorta di tango, cantato in italiano, con una melodia sognante ed un testo non banale. Qui emerge l’aspetto più autoriale di Giglio, convincente, con alcune sfumature d’approccio vicine ad autori come GianMaria Testa.

L’amore per la musica brasiliana si concretizza con Sogno Carioca, stigmatizzato dal pianoforte cristallino di Gorlier. Si tratta di un samba pieno di allegria, con l’azzeccato intermezzo di scat in onore di quella modalità jazzy che tanto ha caratterizzato la musica moderna brasiliana, nata dall’incontro vincente tra due culture, quella statunitense e quella sudamericana, rinnovatesi vicendevolmente attraverso uno scambio di invenzioni ritmiche e raffinatezze improvvisative. Spianata Castelletto è dedicata a Genova e qui, a mio parere prima di ogni altro autore di scuola ligure, è proprio la figura di Tenco che emerge, insieme ad una modalità narrativa che fa pensare indirettamente a Umberto Bindi. Compare in questo frangente il clarino di Arlorio che contribuisce a patinare il brano di una sfumatura color seppia, caratterizzando l’immagine come se fosse un assemblaggio di ricordi velati dal tempo. Veniamo quindi alla cover, The Dry Cleaner From These Moines, tratto dall’album Mingus di Joni Mitchell uscito nel 1979. L’inizio del brano ripropone le note dell’arcifamoso Straight, No Chaser tratto dall’omonimo album di Thelonious Monk del 1967. Quindi sono omaggiati, si può dire in contemporanea, due grandi numi tutelari del jazz più una delle più grandi e geniali autrici mai apparse nel mondo della musica autoriale. Giglio, con umiltà e carattere, offre una sua versione molto swingante, coadiuvato dalla splendida band che lo accompagna. Pale Moonlight è un pezzo lentamente cadenzato da una batteria incentrata sui piatti e da un piano impegnato in un assolo breve e delicato, con la voce di Giglio che forse s’infila in qualche vocalizzo di troppo nel finale.

Giunto alla fine degli ascolti, mi chiedo se Max Giglio sia solo un sognatore, con tutti i suoi richiami al passato e a una musica che sembra procedere in direzione contraria rispetto alle numerose tensioni e tendenze contemporanee. Ma poi mi rendo conto che i crooner non invecchiano mai perché il loro procedere non è in avanti o all’indietro ma in direzione laterale, scavandosi una nicchia in cui i concetti di bellezza, di ritmo e di armonia sono e restano quelli di sempre. E poi Giglio possiede una qualità, al netto della sua bella voce, che è la disponibilità a perdersi in un proprio mondo, inseguendo l’idea di un perenne Great American Songbook da sfogliare ed interpretare, ogni volta, a suo gusto.

Tracklist:
01. Tuesday Dancers
02. Autumn in Torino
03. Butterfly and Rain
04. Città sospese
05. Sogno carioca
06. Spianata castelletto
07. The Dry Cleaner from Des Moines
08. Pale Moonlight