R E C E N S I O N E
Recensione di Stefania D’Egidio
C’era una volta il BritPop: sembra ieri eppure sono passati trent’anni da quando i gruppi inglesi come Oasis, Blur, Pulp e Suede si contendevano i palcoscenici di tutto il mondo, poi alcuni si sono persi dietro i burrascosi rapporti interpersonali, altri dietro la smania di intraprendere una carriera solista, mentre i Suede, tra alti e bassi e cambi di formazione, hanno proseguito per la loro strada, magari senza replicare i successi del passato, costruiti a suon di hits di facile presa e grande orecchiabilità, ma comunque affinando il proprio stile e seguendo la naturale evoluzione di una raggiunta maturità artistica. Il gruppo di Brett Anderson è giunto così al suo nono album in studio, Autofiction, pubblicato lo scorso 16 settembre per l’etichetta BMG; quasi un nuovo inizio per loro, che avevano scalato le classifiche inglesi nei primi anni ’90, con un sound che volutamente si rifaceva a idoli come Bowie, Roxy Music e Smiths. Poi la fase sperimentale, con maggiore spazio alle tastiere di Codling, i litigi interni, i cambi di formazione e la pausa dal 2003 al 2010. Autofiction è una rinascita, il ritorno a suoni più grezzi, tanto da essere definito da loro stessi un album punk, non nel senso comune della parola o, almeno, non alla Sex Pistols per intenderci, ma in quanto genuino, per nulla artificioso, un disco molto intimo con tematiche che riguardano da vicino i protagonisti: una riflessione sul tempo che passa, un modo di affrontare le ansie e le paure di questo tempo. Un bilancio della propria vita per Brett, non nuovo a queste considerazioni, già affrontate nelle due autobiografie pubblicate, Coal Black Mornings e Afternoons With The Blinds Drawn, entrando davvero nel privato quando nella canzone dedicata alla madre, persa da bambino, She Still Leads Me On, titolo di apertura, parla di come sia ancora oggi una guida per lui e di come si senta ancora in contatto con lei nonostante la morte li abbia separati. Non è un caso che la lavorazione sia durata ben quattro anni: tanto hanno impiegato Brett Anderson, Mat Osman, Simon Gilbert, Richard Oakes e Neil Codling a scrivere le canzoni, mentre la registrazione è stata velocissima.

Alla produzione di nuovo quel Ed Buller che magistralmente aveva diretto il gioco nei primi tre lavori dei Suede tirando fuori il meglio dalla band, quasi a voler chiudere un cerchio a trenta anni dall’esordio. Genuino quest’album, tanto che in alcuni brani si può sentire addirittura il rumore dello spinotto che entra nell’amplificatore, in altri le voci registrate dei fan a cui era stato chiesto, prima della pandemia, di partecipare al lavoro andando in studio, dovendo poi ripiegare, causa covid, sulle registrazioni. L’idea, a detta di Anderson, era quella di realizzare un album semplice che ricreasse l’atmosfera e l’entusiasmo degli inizi, quando la musica era al centro del suo universo, e che fosse facilmente riproducibile dal vivo, in locali preferibilmente piccoli, a differenza del precedente The Blue Hour, ricco di orchestrazioni.
Chitarre affilate e percussioni esplosive in Personally Disorders, brano che esplora la fragilità della vita e la complessità dei rapporti interpersonali. La successiva 15 Again è un brano dalle sfumature dark, ma solo apparentemente, perché in realtà è un inno all’amore per la vita. Potente.
Stesso mood per The Only Way I Can Love You, brano alla Smiths con le chitarre protagoniste assolute. Un tocco di psichedelia invece negli slides di That Boy On The Stage e il falsetto di Anderson, nel ritornello. Atmosfera onirica per Drive Myself Home in cui Codling può finalmente dispiegare il suo arsenale di piano e synth. Black Ice è un tripudio di distorsioni dal ritmo accattivante, Shadow Self un postpunk da manuale (a metà tra The Cure e Siouxie and The Banshees), uno di quei pezzi che ti fanno venir voglia subito di prendere in mano la chitarra per suonarlo. It’s Always The Quiet Ones? Altrettanto crepuscolare, ma con un’apertura maggiore nel ritornello; fantastico il riverbero sul finale. What Am I Without You? bisogna aspettare la decima traccia per ascoltare una ballad, se così si può definire, un po’ la prosecuzione di Drive Myself Home a sensazione; brano lunghissimo, oltre sei minuti, quindi mettetevi comodi. In Turn Off Your Brain and Yell si sente finalmente il basso in primo piano e che basso!: batte come un martello pneumatico e detta il tempo a batteria e chitarra. Cinque minuti abbondanti di quelle belle pulsazioni che ti riattivano la circolazione, forse la mia preferita per il ritornello (“can you feel the sunshine when turn off your brain and yell?“). La degna conclusione di un album bellissimo, potente, spontaneo, così spontaneo da farti amare anche le piccole imperfezioni sonore, volutamente lasciate durante la registrazione, allo scopo di portare l’ascoltatore dentro lo studio e farne il settimo componente della band, oltre a loro e al produttore. Azzeccatissima anche la scelta della copertina con un uomo nudo, ritratto a mezzo busto, di spalle, rigorosamente in bianco e nero, quasi a voler dire che ci sono e che sono tornati senza fronzoli a quello che erano e per cui li abbiamo amati. Del resto quando ci si innamora di un gruppo è per il suo “marchio di fabbrica”, che lo distingue da tutti gli altri: le sperimentazioni sono belle, ma solo se durano poco…
Voto: 10/10: questo settembre sta regalando perle.
Tracklist:
01. She Still Leads Me On
02. Personally Disorders
03. 15 Again
04. The Only Way I Can Love You
05. That Boy On The Stage
06. Drive Myself Home
07. Black Ice
08. Shadow Self
09. It’s Always The Quiet Ones
10. What Am I Without You?
11. Turn Off Your Brain and Yell
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