R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Non credo esista, attualmente, un altro musicista del calibro di Keith Jarrett capace di un channeling così efficace con il proprio inconscio. Il pianista americano si è sempre raccontato, in solitaria o in formazione, attraverso il suo daimonion fatto di note, anziché di parole. Lo ritroviamo in questo concerto live mai così asciutto, rigoroso, assoluto nel suo sapersi muovere come nessun altro – e ribadisco nessuno – tra brani atonali, melodici, illuminanti ideogrammi sonori, echi di tradizioni lontane, inaspettati romanticismi ed ectoplasmici blues. Jarrett non è solo un jazzista, è un pensatore laterale dal tocco pianistico fatato, cioè un artista che arrivato a questi livelli può permettersi di lavorare sulle armonie aggirandone le logiche pre-costituite per riordinarle, adattandole alle sue umane tensioni interiori, in una forma così elegante e perfetta da ridimensionare fortemente ogni altro suo emulo – e sono parecchi… Ad un compositore come lui possiamo perdonare molte cose, soprattutto quella certa proverbiale bizzosità caratteriale – dato peraltro comune anche ad altri leggendari pianisti come A.B.Michelangeli e G.Gould, ad esempio. E dobbiamo anche saper considerare le dolorose traversie personali dovute ad uno stato di salute spesso precario, non ultime le conseguenze di un ictus recidivo che attualmente gli impedisce di suonare. Questa registrazione ECM, Bordeaux Concert, riporta l’esibizione finale della sequenza di apparizioni compiute in Europa nel 2016. Off Topicsi era già occupata del precedente lavoro, il Budapest Concert uscito nel 2020 – troverete la recensione qui – che a sua volta avevaseguito Munich 2016, altra tappa del tour europeo dello stesso anno. Chissà se ECM pubblicherà, prima o poi, le altre due serate di quella medesima avventura che si svolsero a Vienna e a Roma.

In questo suo ultimo, eccezionale album, troverete tredici tracce lungo le quali Jarrett pare abbia – almeno in parte – smesso di torturarsi con certe farragginose interrogazioni per abbandonarsi al flusso, alla sorgente ideatoria che gli viene dal profondo. Uno sgorgare di note che non si è mai arrestato negli anni, una fontana che ha dissetato a lungo tutti gli appassionati della sua musica e che in questo album ha forse raggiunto uno dei massimi della sua gittata. Qualcuno ha paragonato il Bordeaux Concert al famoso Koln Concert del 1975 ma personalmente non mi trovo d’accordo: questo lavoro del 2016, vuoi per la maturità dell’artista, vuoi per la raffinatezza tecnica raggiunta quasi cinquant’anni dopo, mi sembra decisamente superiore. Sono consapevole che per alcuni il pianismo odierno di Jarrett possa risultare problematico, specie quando la sua musica si separa dal centro tonale per costruire incastri dissonanti e un po’ spigolosi. In questo album tali spostamenti sono pochi e sembrano più che altro delle parentesi all’interno di un discorso più melodico, una ricerca di quel noumeno che un po’ gli si cela e in parte gli appare capricciosamente tra i tasti manifestando la propria continua natura inafferrabile. Ma quando poi le direzioni musicali si riallineano in una bellezza antica, apollinea, commovente nella sua nuda trasparenza, allora l’emozione e la claritas si espandono tutt’intorno alla tastiera, innescando una catena di epifanie sonore che lasciano, ancora oggi, stupefatti per la loro profondità emozionale.
La sequenza dei brani dell’album è un susseguirsi di parti numerate con cifre romane, senza quindi un titolo preciso. Non ci sono standard ma solo le composizioni estemporanee dettate dall’improvvisazione del momento. La Part I possiede un approccio atonale, non semplicissimo ma nemmeno astruso. Sembra che una foschia avvolga la ricerca di Jarrett, intento a tenere al guinzaglio i suoi demoni, interrogando la tastiera e ottenendone risposte sibilline, con note che entrano ed escono caoticamente ma non troppo dal suo pianoforte. Una falena a sbattere contro un vetro che la separi dalla luce, fino ad arrivare ad una fase di quiete verso metà brano. I dubbi non si sono chiariti, le domande restano inevase, ma la dimensione complessiva del pezzo si fa notturna, le armonizzazioni ancora si accavallano, il suono diviene più naturalistico e rarefatto, fino alla chiusura in modo quasi classico. Il pubblico trattiene il fiato, l’applauso compare dopo qualche momento di attesa sospensiva. La Parte II è un flamenco suonato nella zona medio bassa della tastiera, con quelle tipiche rincorse rapide di semitoni che siamo abituati ad ascoltare più dalle chitarre che non dal piano, a meno che non si conosca la musica di gente come Diego Amador o David Dorantes. È un flamenco molto intimista, senza esplosioni timbriche, pieno di coni d’ombra ma privo di quella selvaggia “animalità” che appartiene di fatto alla musica andalusa. Jarrett ci fa percepire anche qualche passo di danza, qualche appoggio sulle note più gravi. Un curioso brano, realmente inaspettato, velatamente distopico. Con Part III si entra nell’universo lirico e melodico dell’Autore. Si tratta di un gospel dall’andamento innodico con venature blues e una struttura efficacemente cantabile, introdotta da una serie di accordi tra cui quelli più rasserenanti di settima maggiore. Il brano si organizza in un secondo tempo con un delicato incrocio tra chords che sfilano simulando una seconda linea melodica di appoggio, intercalata alla prima più semplificata e resa facilmente comprensibile. Part IV comincia con un trillo ripetuto che va a risolversi in una espressione malinconica ed intimista, non priva di qualche lieve dissonanza nel suo procedere che regala alla traccia un certo senso d’inquietudine. La velocità esecutiva accelera, il jazz del codice genetico jarrettiano risorge dal torpore e si fonde nell’atonalità. Il sentimento iniziale naufraga quindi in un nuovo periodare senza più apparenti punti fissi verso un finale lievemente più luminoso e rifinito sulle note altissime della tastiera. Ancora un clima fortemente atonale in Part V, forse il brano meno efficace, uno di quelli che divertono molto chi li suona e meno chi ascolta. Una prova di forza – ma ce n’era bisogno? – della tecnica di Jarrett con un sentimento confuso di fondo che lo rende ostico. Il pubblico, comunque, pare non accorgersene ed applaude convinto. E magari ha pure ragione lui. Part VI è un piccolo grande capolavoro, altri commenti non riuscirei a farne. Quelle note ribattute continuamente, prima nella melodia poi nell’accompagnamento, hanno un sapore fortemente classico, un’aura notturna che mi ha ricordato le meditazioni dell’ottocentesco compositore irlandese John Field. Ma qui lievi dissonanze ci fanno capire che pur con le suggestioni del passato, siamo di fronte a una indiscussa creazione contemporanea.

Part VII si struttura sopra un ostinato in tonalità iniziale di Mi maggiore rimarcato da una continua ondulazione di singole note – La bemolle e Sol bemolle – giocata sulla parte più alta della tastiera. Brano felicemente tonale, questa volta, assai melodico, che costruisce tutt’attorno una serena dimensione quasi di gioco infantile. Anche in questo frangente c’è molta reminiscenza del periodo pianistico-classico, poche urticanze, quasi una linearità espressiva assimilabile a qualche autore new-age (Philip Aaberg?). Finale quasi chopeniano, bellissimo, brano da ascoltare e riascoltare in silenzio religioso. Part VIII è blues, direi più che tradizionale, con una linea di basso insistente a crerare un moto perpetuo alla Dr. John sopra di cui Jarrett legge i canoni classici del blues rispettandone i dovuti parametri, con qualche accenno di out of tunes con la mano destra. Godibilissmo come lo sono i blues suonati dai veri maestri. Applausi a scena aperta. La Part IX è un altro di quei gospel molto cantabile, dall’incedere inizialmente un po’ formale ma che poi strada facendo si arricchisce di dissonanze provando a diventare qualcos’altro. Un inno che diventa via via una creatura sfuggente e sfaccettata. Con la Part X si torna ad una dimensione giocosa, vicina alla passata Part VII, ma questa volta più scherzosa, senza le tendenze nostalgiche della stessa VII. A dir la verità sembra di ascoltare un curioso ibrido tra una fuga di Bach con tanto di contrappunto ben in evidenza ed un brano caraibico! Una solarità insolita per Jarrett, soprattutto nel contesto di questo album. La serie di accordi in minore caratterizza il melodicissimo brano che costituisce la Part XI con l’aspetto di una canzone alla francese, tra Ferrè e Brel, chissà se frutto della suggestione di star suonando in terra d’oltralpe. Ovviamente nel brano, infarcito di tematiche e cadenze classicheggianti, si riesce benissimo a seguire la linea melodica, che pare proprio strutturata in forma di chanson. Atmosfera allo zenith con part XII. Ormai Jarrett è riuscito a creare quel ponte magico che lo tiene unito al suo pubblico. Ricordate la fiaba dell’arcobaleno che a seguirlo si arriva a trovare una pentola d’oro? Siamo forse nel punto massimo del pathos dove la tradizione classica lavora ai fianchi l’autore, ormai posseduto da quel clima compositivo impregnato di malinconico abbandono che si è venuto a creare. Ma non è finita. L’ultimo brano, la Part XIII, s’imposta in forma modale su un’apparente scala dorica e ricorda la musica di Gurdjeff. Note rarefatte, con la vocetta di Jarrett che sembra intonarci sopra una parvenza di canto. Musica piena di echi emotivi, richiami notturni, paesaggi sereni e tuttavia intrisi di una tristezza indecifrabile che fa apparire il tutto come una vera e propria rimembranza – cioè una memoria che scuote il corpo intero – più che un semplice ricordo.
Nella bella intervista condotta da Nate Chinen a Jarrett nell’agosto di quest’anno per NPR music, apprendiamo come il musicista nato in Pensylvannia sia attualmente impegnato in una faticosa riabilitazione per recuperare almeno parte dei movimenti cancellati dal doppio ictus che l’ha colpito nel 2018. Jarrett si lamenta soprattutto della mano destra di cui riesce attualmente a utilizzare bene solo il quinto dito. Di accordi a quattro, cinque dita non se ne parla, salvo cercare di risolvere parzialmente il problema, per ora, con un’armonizzazione arrangiata solo da bicordi. Il suo pianoforte, dice il musicista, per ora lo può solo guardare e poco altro. Ragione in più, a monte di tutto questo, per apprezzare questo suo ultimo disco e farci capire che cosa potremmo perderci se Jarrett non riuscisse a recuperare la possibilità di suonare.
Tracklist:
01. Part I
02. Part II
03. Part III
04. Part IV
05. Part V
06. Part VI
07. Part VII
08. Part VIII
09. Part IX
10. Part X
11. Part XI
12. Part XII
13. Part XIII
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