R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Provasi
John Legend è senza ombra di dubbio uno dei simboli dell’industria musicale degli anni duemila, radicato negli anni ’90, ma sempre attento ad ogni novità ed influenza. Otto album all’attivo, miliardi di streaming, valanghe di premi, ruoli da protagonista in musical di successo e riconoscimenti di ogni genere hanno forse influenzato le aspettative su Legend, progetto ambizioso composto da due dischi e ventiquattro tracce (ma ventitré nuovi brani, essendo presenti due versioni di uno stesso pezzo) che non ha conquistato il cuore di pubblico e critica. Si può dire che la grande problematica dell’intero lavoro, sia innanzitutto l’eccessivo numero di brani in generale, non sempre ispirati e sostanzialmente ripetitivi, sia dal punto di vista di atmosfera e sonorità, sia sotto il profilo dell’arrangiamento e della produzione. Il lavoro risulta sicuramente compatto e coeso, ma forse a tal punto da non permettere ad alcun brano di spiccare e differenziarsi dagli altri, generando una sensazione continua di deja vù e noia. Una decina di brani in meno non avrebbe guastato probabilmente, rendendo sicuramente il lavoro di una portata differente, ma forse più convincente.

Dal punto di vista strutturale, coesistono all’interno dell’opera, due diverse anime contenute nei due dischi da cui è composta. Nel primo atto, composto da dodici tracce come il successivo, John Legend ci guida lungo vicoli illuminati solo da insegne al neon di night club e da luci soffuse di lampioni lampeggianti attraverso avventure serali tipiche di un sabato sera all’insegna della perdizione, della passione e della sessualità. Neo soul alla Lauryn Hill, R/B e atmosfere più hip hop sono la cifra stilistica di questa sezione, lasciando spazio al pop alla seconda parte. Nove delle dodici tracce sono (purtroppo) a rischio di subire la pena peggiore per un brano musicale: l’ascolto passivo. Ci si imbatte infatti in un insieme di brani dallo scarso valore sia sotto il profilo musicale che lirico, in cui si ripetono cliché e soluzioni armoniche e d’arrangiamento in cui l’accoppiata tipica dei sottofondi da lounge “basso–batteria” la fa da padrona con ritmiche banali e scontate, sovrastate da cori gospel e soul a supporto delle linee vocali.
Dell’intera tracklist però, sono presenti tre brani che godono di un’effettiva personalità, in grado di mostrare qualcosa in grado di renderle memorabili: l’apertura, Rounds, in collaborazione con Rick Ross, la quinta traccia, Guy Like me e Splash (feat. Jhenè Aiko & Ty Dolla $ign). Il primo brano presenta un’atmosfera soul miscelata con spunti pop e rap, in cui Rick Ross e il suo inarrivabile flow trascinano brano e ascoltatore nell’universo del rap da strada. Sempre in linea con le sonorità prettamente hip hop, Splash risulta uno dei brani musicalmente più moderni dell’intero lavoro, sia per il doppio featuring presente che per la produzione molto in stile neo-soul corretta da 808 in grado di riportare le orecchie a sonorità anni ’90 fuse con le ultime tendenze musicali. L’ultimo brano di questa terna “miracolata” presente nel primo atto, Guy like me, si differenzia da tutto il resto del lavoro grazie alle sonorità bossa nova fuse con intuizioni tipiche del suol datato primo decennio del nuovo millennio, quasi in stile Amy Winehouse, in grado di rendere il brano accattivante e carico. La conclusione, che strizza l’occhio alle composizioni lo-fi, completa questo brano degno di nota.
Il secondo atto dell’album vede un completo ribaltamento delle tematiche e delle cifre stilistiche dal punto di vista lirico, narrando la dimensione più romantica e personale del rapporto tra le persone, mentre musicalmente l’opera rimane strettamente legata al mondo hip hop, seppur temperato e addolcito da evidenti influenze pop. Purtroppo, anche in questo caso siamo di fronte a un lavoro che convince a malapena, di difficile scorrimento e spesso segnato da una continua sensazione di “già sentito”. Memories, traccia utilizzata per aprire questa nuova sezione, si mostra come un marcato cambio di passo rispetto al frammento precedente per via di un buon testo molto dolce e una sonorità più in stile Anderson. Paak, e risulta, insieme ai successivi tre brani, tra le migliori composizioni dell’album. La quattordicesima traccia, Nervous, all’ascolto si pone come un’ottima ballad synth pop, molto orecchiabile, leggera, ma non stucchevole. Sulla stessa linea della precedente, Wonder Woman si mostra come una ballad soul in stile John Mayer che strizza l’occhio a un classico della musica americana, People get ready, in cui però un’armonia molto retrò convive con una melodia e un arrangiamento decisamente moderno, a completare uno dei brani migliori dell’album. Come ultimo frammento di questa sezione iniziale che solleva in parte la qualità artistica dell’intera opera si trova Honey (feat. Muni Long), un fin troppo bene brano figlio dell’arte di Lauryn Hill in cui il featuring valorizza al massimo la composizione. Da questo momento, ogni brano di Legend non soddisfa in alcun modo le aspettative e in sostanza rende molto difficile completare l’ascolto dell’album, che si classifica tiepidamente nei cuori dei fan e difficilmente potrà essere annoverato tra i lavori più memorabili di uno dei più importanti hit maker degli ultimi vent’anni.
Tracklist:
Act 1
01. Rounds
02. Waterslide
03. Dope
04. Strawberry Blush
05. Guy Like Me
06. All She Wanna Do
07. Splash
08. You
09. Fate
10. Love
11. One Last Dance
12. All She Wanna Do
Act 2
01. Memories
02. Nervous
03. Wonder Woman
04. Honey
05. I Want You To Know
06. Speak In Tongues
07. The Other Ones
08. Stardust
09. Pieces
10. Good
11. I Don’t Love You Like I Used To
12. Home
Rispondi