I N T E R V I S T A
Articolo di Barbara Guidotti
L’addio al mondo di Vincent Van Gogh nel nuovo spettacolo di Marco Goldin: parole, musica e suggestioni visive per raccontare il congedo dalla vita di un artista eternamente sospeso fra malinconia e passione.
A quattro anni esatti dall’evento “La grande storia dell’Impressionismo”, Marco Goldin – storico dell’arte, saggista, narratore – ritorna sul palco del Teatro Nuovo di Salsomaggiore Terme per presentare in prima nazionale il suo nuovo spettacolo, “Gli ultimi giorni di Vincent Van Gogh. Il diario ritrovato”, che andrà in scena il 5 novembre.
Il diario ritrovato in un cassetto non è che un espediente narrativo per proiettare il pubblico all’interno della dimensione umana di Van Gogh, e farlo partecipe delle ultime tappe del suo percorso artistico ed esistenziale, da Saint Remy a Parigi e infine a Auvers-sur-Oise, dove il suo “viaggio” troverà la definitiva conclusione.
Abbiamo incontrato Marco Goldin nel backstage, per avere qualche anticipazione e approfondire i temi portanti di questo lavoro carico di suggestioni, basato sull’omonimo romanzo – edito da Solferino – uscito nelle librerie il 15 settembre: a teatro vuoto, i pannelli luminosi ad alta definizione che costituiscono la scenografia riproducono con estrema nitidezza i quadri di Van Gogh, creando un’esplosione di colore su cui si stagliano i pochi ma essenziali oggetti che rendono immediatamente riconoscibile la ricostruzione della stanza che accolse le ultime ore dell’artista.

Leggendo il suo romanzo, che rappresenta la base narrativa da cui è nato questo spettacolo, appare evidente come il tema del racconto trovi una perfetta corrispondenza anche nella cifra stilistica adottata, fortemente poetica. Come viene sviluppata nello spettacolo questa sua esigenza di raccontare di Van Gogh in modo diverso, distaccandosi dalla divulgazione?
Personalmente, mi piace muovermi su due campi in tutto quello che affronto. Nel momento in cui scrivo libri da saggista, da studioso e da storico dell’arte questi avranno una certa impostazione stilistica, anche se la mia scrittura è sempre una scrittura molto “comprensibile”; ma il punto di partenza è che io mi sono sempre posto come narratore, sia che si trattasse di romanzi, di racconti o di poesie. Sono quindi uno storico dell’arte che parte da questa sensibilità narrativa. Mettendo poi in scena uno spettacolo teatrale che nasce non da un saggio ma da un romanzo è chiaro che anche il linguaggio debba essere adeguato al luogo ed alla circostanza, ed è esattamente quello che ho cercato di fare. Lo spettacolo, infatti, è composto da vari elementi: ci sono parti a braccio – quelle che mi consentono di raccontare la storia delle ultime settimane di Van Gogh -, parti in lettura dal libro e infine parti, che sono veramente molto emozionanti e commoventi, strutturate su sola musica e immagini. Posso aggiungere anche un altro elemento, che è quello della voce fuori campo, che segna l’inizio vero e proprio dello spettacolo nel momento in cui si apre il sipario. Ho ritenuto opportuno, inoltre, attraverso un messaggio che precede l’apertura del sipario stesso, chiarire al pubblico che i brani letti da me non sono le lettere reali di Van Gogh, ma testi che ho scritto e appartengono alla categoria del verosimile. Lo spettacolo inizia dunque con una caratterizzazione visiva e scenografica accompagnata da una voce fuori campo che è la mia, chiaramente, perché deve essere coerente con tutto l’impianto dello spettacolo.
Le parti in lettura del diario si svolgeranno al tavolino oppure in altri punti del palco, ad esempio in piedi, al centro della passerella e si alterneranno ora a momenti in cui farò parlare solo musica ed immagini, uscendo dalla scena, ora a narrazioni a voce fuori campo. Il tutto per un’ora e mezza circa di spettacolo.
Per la colonna sonora ha scelto le musiche di Franco Battiato. Su quali composizioni si è focalizzato?
Sui social ho avuto commenti contrastanti sulla scelta di Battiato, in larga maggioranza entusiastici, in altri casi perplessi, perché molti pensavano al Battiato più noto; in realtà, tuttavia, Battiato spaziava su generi anche molto diversi. Possiamo visionare un minuto di spettacolo che dia l’idea del connubio tra immagini e musica.
(A questo punto Marco Goldin chiede alla troupe dei tecnici di mandare un contributo. Le luci in sala vengono spente, e le immagini iniziano a scorrere sui pannelli; i ritratti di Van Gogh si avvicendano, scanditi da sonorità strumentali in sottofondo che riecheggiano nel teatro vuoto. Sto assistendo con emozione ad una piccola anteprima assoluta).
Queste sono musiche tratte da tre lavori di Battiato, da uno dei quali ho attinto maggiormente. Si tratta sostanzialmente di opere: Gilgamesh del ’92, Telesio del 2011 ed infine Joe Patti’s Experimental Group (il ventinovesimo album in studio di Franco Battiato, del 2014, ndr), un disco strano, di musica elettronica, da cui ho tratto due brani diversi.
Talvolta quindi, nel corso dello spettacolo e con continuità, si verificheranno momenti in cui la musica arriverà ad accompagnare la narrazione sul finire di una scena (lo spettacolo si snoda attraverso ventiquattro micro-scene, ndr), come quando – partendo da un ritratto di Van Gogh, ad esempio quello di Adeline Ravoux, figlia del locandiere di Auvers – colgo l’occasione per parlare del senso del ritratto nella sua produzione pittorica, rifacendomi anche alle opere precedenti; in questo caso la voce sfuma nella musica. In altri casi lascerò parlare musica ed immagini sole, uscendo dalla scena.
Sul palco è stata ricostruita – direi evocata – nei suoi elementi essenziali la stanza di Van Gogh. Che ruolo e che significato simbolico assume?
Si, sulla scena abbiamo il tavolino, la sua lampada, una sedia, una cassettiera da cui uscirà il famoso quaderno ritrovato. La stanza è il luogo in cui l’intimità che pervade tutto lo spettacolo si accentua ancora di più. Diventa il luogo-camera, il luogo-stanza, un rifugio.
Un luogo che però non esclude, ma include l’immagine dell’universo che esiste al di fuori…
Sì, poi attraverso le immagini questo si coglierà bene nel corso dello spettacolo, soprattutto in riferimento a quell’abbaino, quel lucernario che in alto mette in collegamento la camera con il mondo esterno.

Passando al contenuto dello spettacolo, un elemento importante è sicuramente il fatto che nel testo lei sovverte un luogo comune su Van Gogh, cioè che se ne sia andato vittima della propria follia. Una convinzione che appartiene all’immaginario collettivo, secondo la quale dagli atti di autolesionismo ci sarebbe stato una sorta di crescendo culminato nel suicidio. Lei invece afferma che Van Gogh, come uomo e come artista, fosse arrivato a compimento del proprio percorso, e se ne sia andato in pace. È questa una lettura che lei ha ricavato dalle fonti?
Si, dalle lettere, che sono l’unica fonte che abbiamo, a parte alcune piccole testimonianze o documentazioni successive, alcune rese anche molti anni dopo la sua scomparsa – a volte edulcorate o modificate – quando ormai era nato il mito di Van Gogh. Io da tanto tempo faccio questo lavoro di studio e ricostruzione biografica, che è sfociato due anni fa nella mia biografia monumentale, quella per la Nave di Teseo (casa editrice milanese, ndr), un volume di quasi mille pagine che inizia proprio con l’affermazione “Van Gogh non era pazzo”. Diciamo che ormai la storiografia su Van Gogh, quella più moderna ed aggiornata, è allineata in questo senso, mentre il pubblico ricava informazioni soprattutto dalla cinematografia, che spettacolarizza e modifica la realtà. Ma ormai gli storici dell’arte sono tutti assolutamente su questa posizione. Van Gogh era affetto da una sorta di malattia malinconica, come la chiama lui stesso, però è molto importante ricordare che lui la definisce una malinconia attiva, una bellissima espressione che utilizzanelle sue lettere. Si tratta quindi di una malinconia che non porta alla depressione, alla passività, ma al contrario è una malinconia che porta all’opera. E questo è un elemento cardine. Lui aveva comunque ben chiara la propria situazione; sapeva di avere dei problemi, evidentemente anche un certo disequilibrio, ma sicuramente non era pazzo. Sono anche molto interessanti, in questo senso, alcune delle lettere che scrive dal cosiddetto manicomio in cui fu ricoverato quando si trovava a Saint Remy in Provenza: nel parlare dei pazzi ricoverati insieme a lui, era chiaro come si sentisse assolutamente fuori posto e non sopportasse la situazione. Quindi parlare della pazzia di Van Gogh significa in realtà parlare di qualcosa che non è mai esistito. E chi ha formulato interpretazioni psicologiche, psicanalitiche, mediche e così via lo ha fatto senza alcun fondamento, perché non esiste alcuna evidenza medica del tempo che avvalori questa ipotesi. L’unica pseudo analisi fatta sommariamente è la diagnosi di possibile epilessia fatta dal direttore del manicomio di Saint Remy, ritenuta da egli stesso infondata dopo una settimana di osservazione di Van Gogh.
Si può dunque affermare che la parabola esistenziale di Van Gogh si sia conclusa con una scelta?
Assolutamente sì. Tutti i documenti lo confermano. Theo stesso (il fratello di Vincent, ndr) raccontò a Émile Bernard, un pittore amico di Van Gogh, i colloqui intrattenuti durante la lunga e strana agonia dell’artista parlando di “suicidio premeditato e in piena lucidità”. È lo stesso Émil Bernard a riportare questa affermazione in una lettera scritta ad Albert Aurier, un giovane poeta simbolista che morirà di lì a poco. Queste sono le vicende legate alle testimonianze reali.

Lei ha iniziato ad appassionarsi a Van Gogh in età giovanile, e questa passione l’ha portato, negli anni, ad approfondire sempre di più lo studio della vita e delle opere dell’artista. Può raccontarci come si è sviluppato il suo percorso?
Ho cominciato a guardare le opere di Van Gogh a vent’anni, ma non dal punto di vista “scandalistico”; amavo la pittura e studiavo storia dell’arte all’università. Ho cominciato ad andare a vedere i suoi quadri nei musei internazionali, poi, nel corso di un viaggio, sono stato in Olanda, dove ho visitato il museo Van Gogh ed il Kröller-Müller (i musei olandesi che contengono gran parte della produzione artistica di Van Gogh, ndr), ed è iniziato questo percorso. Ho sempre amato e amo tuttora i pittori che hanno una forte presenza di vita nella loro opera, e quindi è stato quasi naturale rivolgermi a lui, anche a lui. In realtà i primi anni preferivo Monet, che però in seguito è stato scalzato clamorosamente da Van Gogh. Successivamente è stato fondamentale per me cominciare a studiarlo sempre più seriamente; ho compiuto un lavoro durato tanti anni sulle sue lettere, organizzato numerose mostre su di lui, e alla fine tutta la conoscenza accumulata è confluita nella biografia pubblicata due anni fa per la Nave di Teseo.
Il progetto sugli ultimi giorni, anzi le ultime settimane di vita di Van Gogh, del resto, è un lavoro che io avevo cominciato a vagheggiare già scrivendo le prime dieci-quindici pagine di questo Diario ritrovato, nel 2017. Poi l’ho accantonato, ma quando, tra il 2019 e il 2020, ho lavorato alla biografia portando a compimento migliaia di pagine di appunti e facendole diventare libro, mi sono immerso talmente tanto nella sua vita e nella sua opera che, uscito quel volume – all’inizio del 2021 – mi sono detto che forse era arrivato il momento di dare corpo e senso a tutto il mio impegno riprendendo quell’idea. E ho cominciato quindi a scrivere questo romanzo in forma di diario immaginario, pensando anche, cosa che a me piace spesso fare, ad un progetto più globale e completo. È stato immediato pensare al teatro, e nel frattempo, dato che molti mi chiedevano di fare dei podcast, mi sono cimentato anche in questo. Ma il teatro è il tipo di esperienza a cui tengo di più, al punto che con la mia ricerca di perfezione rendo la vita difficile anche a tutta la troupe di tecnici che mi accompagna e che pure è abituata a lavorare con professionalità per grandi artisti.
Questo è uno spettacolo che credo sarà denso di emozioni.
Si può dire che con questo lavoro si chiuda anche per lei un cerchio, in rapporto al suo “legame” con Van Gogh?
È sicuramente la chiusura di un cerchio, anche se la scorsa settimana mi hanno proposto una cosa molto interessante, su Van Gogh, a livello televisivo; un progetto che riguarda tutta la sua vita, in varie puntate. Ma lo spettacolo sicuramente chiude un cerchio, assolutamente.
Per lasciare una riflessione conclusiva, quale ruolo ha l’arte, per Marco Goldin, in un momento storico di grande precarietà come quello attuale?
Il mondo culturale in senso lato è fondamentale, è quello che ti dà il senso della non transitorietà della vita, che ti toglie dalla episodicità. Questo sguardo su un tempo dilatato, un tempo che non si consumi in un istante è fondamentale. E questo viene assolutamente dalla lettura, dall’osservazione, dall’ascolto. Per questo mi piace continuare a raccontare…
Ringrazio tutti coloro che con la loro disponibilità hanno reso possibile la realizzazione di questa intervista: in primis il protagonista, Marco Goldin; il tour manager di Imarts Luca Gnudi; Dante Dall’Aglio, che partecipa all’organizzazione degli eventi relativi al teatro nuovo; la troupe dei tecnici che mi hanno consentito di vivere per qualche attimo – fra musica e immagini – la magia di un evento che si preannuncia emozionante.
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La prima parte del tour teatrale si svolgerà dall’inizio di novembre a gennaio 2023.
Queste le prime undici tappe:
5 novembre, Salsomaggiore Terme (PR), Teatro Nuovo (data zero), ore 21
10 novembre, Bologna, Teatro Duse, ore 21
13 novembre, Verona, Teatro Filarmonico, ore 18
15 novembre, Ancona, Teatro delle Muse, ore 21
20 novembre, Torino, Teatro Colosseo, ore 18
23 novembre, Bergamo, Teatro Creberg, ore 21
29 novembre, Milano, Teatro Lirico “Giorgio Gaber”, ore 20.45
30 novembre, Udine, Teatro Giovanni da Udine, ore 21
2 dicembre, Padova, Gran Teatro Geox, ore 21.15
7 dicembre, San Donà di Piave (VE), Teatro Astra, ore 21
17 gennaio 2023, Trieste, Politeama Rossetti, ore 21
Il tour riprenderà poi da marzo 2023.
Per informazioni e biglietti: www.internationalmusic.it
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