R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Su Off Topic ci siamo occupati diverse volte di uno strumento come l’arpa e di alcuni di quei musicisti che ne hanno fatto il proprio mezzo espressivo. Pensiamo ad esempio a Vincenzo Zitello, recensito qui, alle prese con l’arpa celtica, o ad altre due artiste che utilizzano l’arpa classica suonata però nell’ambito del jazz – vedi Brandee Younger e Amanda Whiting, rispettivamente recensite qui e qui. Questa volta, la nostra attenzione la dedichiamo ad un’altra interessante arpista ucraina ma residente a Londra, dal cognome ostico, Alina Bzhezhinska. Formatasi all’Accademia Chopin di Varsavia, a cui deve l’evidente matrice classica, specializzatasi poi nell’ambito della musica jazz in Arizona, la Bzhezhinska ha insegnato arpa al Royal Conservatory of Scotland ma è a Londra che la sua carriera comincia veramente a decollare. Tutto accadde nel 2017, dopo la sua esibizione in quartetto al Centro Teatrale Barbican, all’interno di un contesto in cui erano presenti anche altri famosi jazzisti come i sassofonisti Denys Baptiste e Pharoah Sanders. La performance del gruppo della Bzehezhinska non passa inosservata e da lì comincia l’ascesa di questa arpista, allora praticamente sconosciuta e oggi giunta al suo secondo album Reflections, dopo l’esordio Inspirations del 2018. Per l’occasione di questa nuova uscita discografica, l’arpista si presenta con un nuovo quartetto, l’Hip Harp Collective, costituito dal veronese Michele Montolli al basso elettrico, Joel Prime alle percussioni, Adam Teixeira alla batteria, Ying Xue al violino e alla viola. In aggiunta ci sono Tony Kofi al sax contralto – già presente nel primo Inspirations con Joel Prime – Jay Phelps alla tromba, Vimala Rowe alla voce e Julie Walkington al contrabbasso. La Bzehezhinska, nonostante le notevoli credenziali del suo curriculim, si guarda bene dall’esibirsi con un atteggiamento ostentatamente tecnico, anzi, potremmo dire che il suo rapporto con lo strumento si basa su una oculata scelta di note, quasi suonasse al risparmio. Niente turbinii di suoni, quindi – tranne quando le mani scivolano fluttuando sulle corde nel classico arpeggio – ma un’attenta selezione di pizzichii e stimoli sonori, il tutto assemblato in un regime di assoluto equilibrio. Non ci sono nemmeno particolari carambole d’invenzioni ritmiche, neanche quando il progetto va a pescare ispirazione nei provocatori murales sonori dell’hip-hop. Un ordine superiore regna sovrano, una limpida scacchiera in cui, come ormai è diffusa abitudine generale, vari climi musicali tendono a mescolarsi anche senza confondersi troppo come in quest’occasione. Ricordi di matrice classica, ritmi urbani, jazz, downtempo, blues e persino interventi pop si sovrappongono mantenendosi comunque sufficientemente distinti gli uni dagli altri. Tra composizioni dell’autrice e riproposizioni di brani “storici” – non sono da considerarsi veri e propri standard in quanto appartengono ad un repertorio più elitario, in termini di notorietà – la Bzehezhinska e i suoi musicisti tratteggiano un’atmosfera per lo più rassicurante, oserei definirla quasi “leggera”, se non temessi di essere frainteso utilizzando questo termine. Si tratta ad ogni modo di un album fresco, frizzante, disinvolto, non privo di autunnali momenti languidi che mostra una brillante policromia di suoni, rendendo il lavoro complessivamente molto piacevole all’ascolto.

Si comincia con una versione di Soul Vibrations, tratto dall’LP del 1968 Afro-Harping della Dorothy Ashby, considerata giustamente insieme ad Adele Girard, una delle antesignane storiche nell’uso dell’arpa in ambito jazz. La versione della Bzehezhinska non mi sembra affatto una riedizione psichedelica dell’originale, come ho letto da più parti. Anzi, sembra molto meno floreale ed acida rispetto al brano della stessa Ashby. Questa di Reflections mantiene intatta la bellezza del tema, vagamente orientaleggiante, ma appare più sobria, poco ridondante e forse più in linea con l’ambiente meno colorato dei giorni nostri. For Carrol inizia con una specie di battito cardiaco in sottofondo ed un velo di corde arpeggiate d’arpa, con la tromba che manda qualche lamento ad intercalarsi con il comparire del basso. Parte il tempo di base con la batteria, sopra cui lo strumento di Phelps schiuma vibrazioni chiare e tranquille, aprofittando del frastagliato gioco ritmico innescato dalle percussioni. L’arpa segna un piccolo assolo quasi corda per corda e quando è la volta del basso elettrico con le sue note più alte ad intrecciare una ghirlanda di note, l’arpa stessa lo segue accompagnandolo insieme ad arpeggi ampi ed ariosi. Chiude ancora la tromba, in garbata eleganza e leggerezza. Fire è un brano scritto da Joe Henderson ed Alice Coltrane – altra musa ispiratrice della Bzehezhinska – e tratto da The Elements, disco del 1974 editato dai due succitati musicisti. Anche in questa versione non ci si discosta molto dall’originale, né in merito ai ritmi – sebbene qui sia avvertibile un maggior sapore latino, soprattutto per merito delle percussioni – né ai temi principali suonati per l’occasione all’unisono tra i due fiati. Abbiamo comunque la possibilità di ascoltare con ammirazione sia il sax di Kofi, a tratti veramente autorevole e torrenziale, e pure la tromba di Phelps che si organizza in un assolo molto personale e ricco di chiaroscuri. La Bzehezhinska suona l’arpa come fosse un pianoforte, quasi con fraseggi dello stesso tipo, e il lungo passaggio delle percussioni ad opera del fido Joel Prime precede la riproposizione finale del tema. Reflections, brano che intitola l’album, ha una dolcezza dal passo felpato, il tocco dell’arpa è magistrale così come il commento del contrabbasso assai aggraziato della Walkington. Il tema, molto melodico, conquista senza opposizione il nostro sentire e sembra alludere, grazie ai suoi suoni cristallini, all’immagine di tremolanti riflessi luminosi. Grande momento comunicativo, pezzo tra i migliori se non il più bello in assoluto. Da menzionare anche l’accompagnamento con le spazzole della batteria che aiuta a creare la morbidezza dell’insieme. È poi la volta di Afro-Blue, traccia composta dal percussionista cubano Mongo Santamaria e pubblicato in origine nel suo disco Mongo del 1959. Ma è certo che la versione più conosciuta è quella di John Coltrane che si può trovare in una stupenda raccolta live all’interno di un’edizione CD rimasterizzata ed estesa che raccoglie diverse incisioni dal vivo dello stesso Coltrane – da Berlino a Stoccolma, realizzate tutte nel 1963 – Afro Blue Impressions, reperibile anche in streaming. Comunque, in questa traccia della Bzehezhinska, il tema è cantato da Vimala Rowe e sembra, inizialmente, un brano d’impronta pop, alleggerito da un accompagnamento discreto, quasi accennato e suonato a mezza voce. L’intervento della tromba però innesca una deviazione più jazzata e l’assolo di arpa prima e l’intervento sovrapposto dei fiati poi, fa intendere come nelle intenzioni dei musicisti sia ben presente l’obiettivo del jazz come riferimento principale. Molto attive le percussioni che offrono quel certo orientamento latino svolto a migliorare l’ossatura ritmica del brano. Una storia tutt’altro che serena riguarda Alabama, brano scritto e pubblicato da John Coltrane nel 1963 in occasione dell’uccisione di quattro bambine nere ad opera degli attivisti del KKK. Il tema della traccia che si sviluppa intorno ad una semplice ottava, quasi per rendere il dovuto raccoglimento alla memoria delle piccole vittime, è presente in un Lp dell’Impulse, Live at Birdland, uscito nello stesso anno del luttuoso avvenimento. Non ci sono particolari cambiamenti strutturali nella versione della Bzehezhinska ma l’arpa, con la sua presenza eterea, costituisce una rete rampicante attorno all’austero suono di Kofi che si guarda bene, solonicamente, dal superare il limite dettato dal maestro della North Carolina. Solamente nelle battute finali, come del resto ha fatto Coltrane, il sax di Kofi si permette qualche spunto di fiato in più.

African Flower è una composizione di Duke Ellington, uscita nell’epocale album Money Jungle (1962), insieme a Charles Mingus e Max Roach sotto il nome in francese di Fleurette Africaine. In questa versione si avverte maggiormente il contrasto tra l’asciutta forma originale presentata dal trio piano-contabbasso-batteria di Ellington e questa cover, delicata come uno zefiro, in cui l’intervento di sax infonde una certa, impalpabile passionalità. La timbrica dell’arpa assomiglia ad uno shamisen tradizionale giapponese o anche ad una kora, per cui la coloritura riassuntiva del brano si trova ad oscillare tra l’Africa e l’estremo oriente. In Paris sur le Toit si ascoltano finalmente gli archi sovraincisi della Ying Xue, mentre l’arpa impone un vamp che tornerà a ripetersi durante l’apertura delle frasi del brano. Ritmica in downtempo, un pezzo lounge molto piacevole e disimpegnato. Sans End è il brano più afro della raccolta. É strano come l’arpa sia una specie di zelig che tende a calarsi nello spirito di altri strumenti cordofoni, come abbiamo visto già in Fire e in African Flower. In questo frangente le somiglianze con la Kora, sia timbriche che intenzionali, contribuiscono a cucinare un piatto speziato molto appetibile. Il brano sembra a tratti levitare in aria, almeno fino a quando basso e batteria, sempre con molta accortezza, non gli danno un appoggio più terreno. Nella seconda parte la presenza della ritmica aumenta la sua dinamica, compare qualche lieve pulsazione persino rockeggiante ma tutto perdura lo spazio d’un momento, finendo per diluirsi nel cauto minimalismo sonoro con cui lo stesso brano si era annunciato. Con Action Line ritorniamo nel territorio compositivo della Ashby con un brano estrapolato dallo stesso Lp Afro-Harping da cui proviene anche il pezzo di apertura di Reflections. Quasi una traccia funky, ma siamo sempre in quella comfort-zone in cui domina una moderazione di comportamento tale per cui ci si muove senza stress particolari, né tantomeno in ansiogene insistenze ritmiche. Assistiamo quindi alla ripresa di Paris sur le Toit rifatta in formato rap con l’aiuto degli apporti vocali di Lady Sanity e Tom They Them, recitati e cantati sia in inglese che in francese. Chiude la selezione Meditation, con arpe sovrapposte, qualche effetto elettronico e i piatti della batteria fatti scivolare come onde marine. Forse il brano più introvertito dell’album.

La musica di questo Reflections sembra giocare sul senso dell’attimo fuggente, offrendo una ricca cornucopia di gentilezze sonore e di gradevolezze in carta stagnola. La Bzehzhinska predilige una hinayana senza sotterfugi né stranezze di sorta, dove tutto viene contestualmente misurato e soppesato e dove non c’è posto per universi perturbanti. L’apparente flemma esecutiva non toglie però il piacere di una musica che sembra sorgere da una fonte di serenità veramente rara, ai giorni nostri, capace di offrire qualche certezza in più e qualche senso di precarietà in meno.

Tracklist:
01. Soul Vibrations
02. For Carrol
03. Fire
04. Reflections
05. Afro Blue
06. Alabama
07. African Flower
08. Paris Sur Le Toit – instrumental
09. Sans End
10. Action Line
11. Paris Sur Le Toit
12. Meditation