I N C O N T R I
Articolo di Riccardo Provasi
In una romantica e storica bocciofila di Turro, zona nella periferia nord di Milano, ho assistito ad uno dei momenti più formativi ed intriganti della mia vita: una conferenza stampa di Francesco Guccini. Classe 1940, dischi e successi a non finire, fan di ogni generazione, tanta poesia, ironia e umanità sono la carta d’identità di questo gigante della musica italiana, che il 18 novembre ha pubblicato il suo ultimo lavoro, inaspettato e attesissimo allo stesso tempo, Canzoni da Intorto, di cui ci racconta le origini e le caratteristiche.
Non si può parlare del disco senza prima valutare cosa sia stato e cosa sia diventato Guccini nell’ultimo periodo. L’ultimo lavoro discografico risaliva al 2012, anno in cui ha salutato i palchi e la musica (fino ad oggi), dopo una carriera di oltre cinquant’anni in cui ha saputo viziare cuori e orecchie degli ascoltatori con testi indimenticabili, a tratti irriverenti e un tantino coloriti, in grado di raccontare in egual misura la dimensione interiore sia dell’autore che dell’Italia, osservata tramite lenti da “filo-anarchico”, come lui stesso ci ha tenuto a precisare in sala stampa. E ora, a distanza di pochi metri e separati solo da un palchetto su una pista di bocce, come si mostra Francesco Guccini?
Vediamo un uomo innegabilmente stanco e anziano, che ha bisogno di aiuto a muoversi e che si sente in parte lontano da questo mondo moderno (in sala stampa passa il microfono all’accompagnatore a seguito di una domanda poiché non sa cosa sia lo streaming), ma tuttavia ancora in grado di incantare con risposte sempre adeguate, quasi mai retoriche e ben motivate, a dimostrazione che il cuore e la mente invecchiano a velocità sensibilmente diverse rispetto al corpo. In poche parole, è ancora maledettamente bravo a raccontare, raccontarsi, essere magnetico, essere un cantautore, anche se di musica e brani non ne scrive più.

Torniamo al nuovo album, Canzoni da Intorto. Esce solo in formato fisico per motivazioni tecniche e filosofiche, dal momento che, come afferma il direttore di BMG, la casa discografica produttrice, sarebbe quasi un insulto piegare la musica di Guccini alle dinamiche quantitative degli stream, come succede ad altri autori. Si tratta di un insieme di undici tracce che fanno parte di tutti quei brani che Guccini cantava da ragazzo coi suoi amici, nelle serate in cui il vino era il vero protagonista, in cui ancora il maestro non si era assunto “la bega di star quassù a cantare”, mostrandoci uno spaccato decennale della storia italiana ed europea tra la fine del XIX secolo e tutta la prima metà e poco più del secolo scorso. È un vero e proprio album di fotografie, in bianco e nero, non più chiarissime e in parte sgualcite, dentro cui possiamo rivedere la Milano degli anni Cinquanta, le storie anarchiche di fine Ottocento, la lotta partigiana della guerra di liberazione, il tutto raccontato da un nonno saggio e magnetico, la cui voce rimane bellissima, anche se lontana dalla forza di un tempo. In generale, l’opera risulta ben fatta dal punto di vista degli arrangiamenti, realizzati da Fabio Ilacqua, dal momento che la strumentazione, ibrida tra elementi acustici e retrò, come contrabbassi e strumenti a fiato, e moderni, e le soluzioni musicali adoperate, sono in grado di rendere attuali brani classici e notissimi, attualizzando, appunto, il momento storico in cui sono stati scritti. Di notevole impatto risulta in primo luogo Ma Mi, grandissima canzone della mala, scritta da Francesco Carpi de Resmini e Giorgio Strehler, la cui interpretazione più famosa si deve alla leggendaria Ornella Vanoni, e che in quest’album si mostra come un momento particolarmente carico seppur malinconico, ma estremamente evocativo. Anche la traccia che apre l’album, Morti di Reggio Emilia, il cui testo racconta delle tragiche morti della fine della Seconda Guerra Mondiale, si dimostra come un momento molto toccante ed energetico, dal sapore moderno seppur retrò. Sono due i brani anarchici di fine Ottocento proposti dal cantautore modenese: Nel fosco fin del secolo e Addio a Lugano. Durante la conferenza stampa Guccini mostra quanto sia legato a queste canzoni, sia per una vicinanza politica, che per una dimensione quasi nostalgica.
Un’operazione di questo genere, cantare brani che hanno cinquant’anni più del cantante, permette una breve riflessione su cosa sia per noi la musica e cosa voglia dire “tradizione”. Come Guccini con gli amici cantava alle serate brani del genere, noi la sera, ubriachi e allegri, cantiamo Guccini. Il “nuovo”, se di qualità (e con qualità si intende “arte sincera”) in tal modo diviene classico, e si incasella in quel mosaico di opere d’arte che è la storia della musica e degli artisti, che non deve mai dimenticare il bello e le radici e non si deve permettere di giudicare chi si avvicina all’arte anni dopo i suoi campioni con ciechi pregiudizi. Detto questo, l’album si chiude con il suo momento più bello, Sei minuti all’alba di Enzo Jannacci e con la partecipazione di Paolo, suo figlio. Siamo di fronte a un capolavoro della musica italiana, ristudiato e riprodotto magistralmente, in grado di evocare quel senso di piacevole malinconia tipica della musica del cantautore milanese.
In conclusione, cosa bisogna aggiungere? I brani dell’album sono tanti altri, forse non tutti brillanti e in parte penalizzati dalla difficoltà che ormai ha Guccini a cantare, ma tutto sommato questo è un disco che il cantautore ha fatto bene a realizzare. Probabilmente non aggiunge nulla alla sua produzione, ma, come al solito, l’arte, la musica (e Guccini), non sono mondi chiusi in cui conta solo il risultato ottenuto, ma in cui hanno valore anche l’insieme di sensazioni e riflessioni successive all’ascolto, e tutto ciò che ogni singola traccia può evocare a livello personale.
Photo © Mattia Zoppellaro
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