R E C E N S I O N E


Recensione di Aldo Del Noce

C’informa tanto sulla post-fusion che sull’avant-jazz – qualsiasi cosa possano comprendere o “significare” ora come ora le due già sfuggenti definizioni – la benvenuta collezione di nuovi materiali espressi in due album più complementari che gemellari, a firma della sempre variamente investita Mary Halvorson.
Casomai di quest’ultima si fosse rilevato una non parca (leggi: esuberante) rappresentazione discografica e concertistica, insomma mediatica, diremmo di non trovare né oziosa né pleonastica l’ennesima iniziativa, che colpisce per il vivace grado di fruibilità e la non trascurabile, in parte rinnovata progettualità.

Certo non poteva passare inosservato un quindicennio di poliedrica espressione della chitarrista formatasi (anche) alla corte di Anthony Braxton, e variamente investita in collaborazioni e/o contitolarità ormai fuori computo, tra cui i confratelli Marc Ribot, Bill Frisell o Joe Morris, la coppia Rainey-Laubrock, soliste quali Jessica Pavone, Susan Alcorn o Sylvie Courvoisier, più recentemente alla testa del convincente e composito ensemble Code Girl, e dalla quale riscontriamo ora un nuovo apporto creativo, fissato in première sul palcoscenico del Roulette Intermedium di Brooklyn e arruolante sodali che rappresentano “alcuni dei musicisti preferiti del pianeta” nell’opinione di Halvorson, che prosegue nelle note introduttive:“Ho iniziato a scrivere la musica nel 2020, quando il mondo ha rallentato e la maggior parte delle attività si è interrotta, e tutto ciò che avevo era la mia chitarra, una matita, della carta e un computer: il piacere di immaginare come potesse suonare la musica mi ha mantenuta sana di mente durante quel periodo e mi ha motivata per andare avanti.
Più o meno nello stesso periodo, ascoltavo molta musica per quartetto d’archi. Avevo alcuni libri di orchestrazione in giro per il mio appartamento e tutto il tempo per prendere lezioni di composizione. Scrivere per quartetto d’archi è sempre stato un mio sogno, ma anche qualcosa di intimidatorio e in qualche modo fuori portata: ma con un programma chiaro e interminabili giornate davanti a me, mi è sembrato il momento giusto per provarci.”


Il risultante doppio album reca dunque due distinte suites (“modulari e ad incastro” secondo la definizione dell’Autrice), progettualmente non convergenti e non necessariamente in relazione ispirativa, cosicché ci riteniamo autorizzati ad anticipare una certa asimmetria qualitativa (ed ovviamente formale) tra le due parti.

La esapartita Amaryllis, in sestetto di marchio jazz, si palesa per musicalità immediata a partire dall’introduttiva Night Shift, innestata su un possente e pulsante groove, alonata da brillanti lamine di vibrafono e solcata dalla nitida e assertiva linea solistica della titolare, cui s’accoda una duale e funzionale brass-section, che disvela con completezza un combo di sinergica e forte intesa, abile a modellare cinque entusiasmanti minuti di piena circolarità ed invenzione raggiante. Ottimo preludio quindi per un assortito programma, che transita nella coralità sghemba e nel fascinoso astrattismo di Anesthesia, tratteggiata tra nebulosità della percezione e febbrile mood metropolitano, che cede al passo serrato e spedito dell’eponima Amaryllis, vibrante di materia metallica e urgenza figurativa.
Uno sconfinamento (o un’anticipazione) del gemellare materiale per quartetto d’archi s’attesta in Side Effect, in cui la formazione da camera introduce con modalità ‘minimal’ il sound d’insieme, che erompe invece con possanza prog-jazz elargendo un’ulteriore stanza di grande energia discorsiva.
Ancora, concentrata e ispida meditazione ‘noisy’ degli archi in Hoodwink, aprendo su un tonico e stratificato astrattismo vivente di luci intense e livide; crepuscolari tinte aprono l’epilogo concentrato di 892 Teeth, ove il sempre più influente intervento delle soliste spazza via ogni costrizione lineare del conclusivo passaggio. 
Notevole e funzionale il grado d’amalgama e l’interattiva disciplina della band, segnata da sortite traccianti e spesso fulminee della titolare, dall’apporto di grande virulenza della vibrafonista Patricia Brennan (contemporaneamente apprezzata nei propri prodigi in quartetto di More Touch), dalle incisive declamazioni degli ottoni, e da un’organica e poliedrica sezione di sostegno, incarnata dagli irrinunciabili sodali Tomas Fujiwara e Nick Dunston, rocciosi garanti e grandi animatori di scansione ritmica, determinante nell’esito del complessivo sound.

Certo, di letteratura accademica e post-accademica Halvorson non poteva esser ignara (e non poco avranno contribuito anche le ‘clinics’ braxtoniane), e la su descritta applicazione intensiva da lockdown sortisce adesso in cinque composizioni per chitarra e quartetto classico, fungente da contraltare (o da “controparte altra”) ai materiali finora apprezzati, ma non inediti per concezione d’insieme.
Voltando pagina nell’ascolto, la sequenza di Belladonna s’articola lungo cinque passaggi in cui Halvorson s’avventura nel segnare un marchio entro una letteratura che, diremmo, in termini compositivi negli ultimi decenni ha espresso poco nell’intento di innovare una formula d’ensemble che ne ha registrato interpretazioni e trattamenti svariati ma che fanno impallidire ben poco i genitoriali e tuttora intoccabili Haydn e Mozart. E più che un’organica raccolta di nuovi contributi, la tracklist suona piuttosto come una ulteriore palestra d’accompagnamento per lo strumento della titolare, con poche preliminari chances per i quattro archi di rivoluzionare in qualche forma la loro fisionomia d’insieme, cosicché il materiale è magari accreditabile in quanto a serietà formale ma assai meno quanto ad ingegno sintattico. Se si rileva abilità a smarcarsi da ogni impasse labirintico, in buona parte per la scrittura prudenziale, e prescindendo dai non pochi riferimenti al moderno pabulum mitteleuropeo (segnatamente: bartokiano e discendenze), la voce delle sei corde elettriche si palesa assai più libera e proteiforme rispetto all’impiego ben meno ardito dell’ensemble d’archi.

Insomma da questa ineludibile presenza, irradiante ben oltre la residenziale area newyorkese, il passaggio discografico presso Nonesuch rilascia un duplico prodotto circa il quale ed in estrema sintesi dichiariamo senza riserve la palese qualità del sestetto d’ascendenza jazz in Amaryllis, foriero di musicalità brillante e diversi piani d’inventiva; meno nitido l’esito del quintetto a corde di Belladonna, che sembra zavorrare alquanto la fruibilità ed il complessivo valore del bipartito album.

Comunque appropriato ritenere che l’affermata vedette abbia centrato un’occasione per rilanciare la complessiva portata del suo cahier creativo; in virtù della verve coloristica, delle trascinanti fisionomie sonore e della grinta d’insieme, meglio esposte nell’album più ‘avant’ del paio, il materiale per una volta assolve in buona parte al ruolo – anche – di musica ‘consumabile’, come era norma ai (bei?) tempi dello scrivente.

Mary Halvorson: chitarra
Patricia Brennan:
vibrafono
Nick Dunston:
contrabbasso
Tomas Fujiwara:
batteria
Jacob Garchik:
trombone
Adam O’Farrill:
tromba

The Mivos String Quartet:
Olivia De Prato: violino
Maya Bennardo: violino
Victor Lowrie Tafoya: viola
Tyler J. Borden: violoncello

Mary halvorson su bandcamp

Amaryllis Tracklist:
01. Night Shift (5:52)
02. Anesthesia (6:41)
03. Amaryllis (5:55)
04. Side Effect (6:47)
05. Hoodwink (6:47)
06. 892 Teeth (5:50)

Belladonna Tracklist:
01. Nodding Yellow (4:33)
02. Moonburn (8:38)
03. Flying Song (5:55)
04. Haunted Head (10:13)
05. Belladonna (8:00)