R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il fiero cipiglio musicale del cinquantasettenne sassofonista Avram Fefer si è strutturato attraverso la musica R&B apprezzata in età giovanile per poi consolidarsi tecnicamente attraverso studi regolari al Berklee di Boston e al New England Conservatory. Suggestionato dalla personalità di fiatisti come Sonny Rollins, John Coltrane, Ornette Coleman e Stanley Turrentine su tutti, Fefer ha arricchito il suo sound poderoso con influenze africane e medio-orientali assorbite durante il soggiorno a Parigi, verso la fine degli anni ’80, a contatto coi musicisti neri di provenienza coloniale. Dopo una dura – ma proficua in termini di crescita musicale – gavetta francese a base di esibizioni per strada e conseguenti arresti da parte della polizia, nella seconda metà degli anni ’90 Fefer torna negli USA, stabilendosi a New York. Col tempo acquisisce una sonorità brillante sia al sax tenore che al contralto e dimostra tutto il suo personale debito non solo verso la tradizione ma anche verso il sound intricato e debordante del free. Il suo primo album da solista, Calling All Spirits, esce nel 2001 e da qui ne seguiranno altri dieci fino ad arrivare a questo ultimo Juba Lee. Accanto al trio collaudato dal 2009 con Eric Revis al contrabbasso – membro permanente del Brandford Marsalis Quartet – e Chad Taylor alla batteria, si aggiunge l’estroso chitarrista Marc Ribot, già presente nel precedente Testament del 2019, il cui stile eclettico – che personalmente tendo ad accomunare a quello di un altro chitarrista come Nels Cline – sembra consegnare una maggior simmetria ed un pizzico di equilibrio in più rispetto al suono rigoglioso del trio stesso. Lo stile di Fefer si muove da un post hard-bop fino al free transitando però nel mezzo di quelle parentesi modali tipiche della musica africana con le quali venne in contatto in Francia, elementi, questi ultimi, che concorrono a delineare in modo più completo il suo profilo stilistico.

L’album ha un inizio in ambito piuttosto tradizionale con Showtime, dove Fefer dimostra di aver assimilato completamente la lezione degli antichi maestri, una sorta di gioco a carte scoperte in cui Ribot s’intrufola con una timbrica di chitarra molto neutra, entrando quindi in punta di piedi tra le maglie avvolgenti del sax e la combustione ritmica e costante di contrabbasso e batteria. Bedouin Dream è una composizione circolare, impostata su un accompagnamento modale del contrabbasso che ripete continuamente l’identico schema nella stessa tonalità di base e con le percussioni ad innescare un’atmosfera da caravanserraglio. Si tratta quindi di una lunga, ipnotica sequenza di improvvisazioni da parte del sax in un clima tranquillo e meditativo che recupera le fragranze medio-orientali assaporate in passato proprio a Parigi. Sky Lake lavora attorno ad una melodia che si sviluppa in primis con una progressione discendente impostata dal sax e ripetuta dalla chitarra di Ribot e secondariamente uscendo da una velatura di piacevole malinconia attraverso l’improvvisazione ariosa di Fefer. Nelle intenzioni dell’Autore, come si evince dai commenti dello stesso, c’era l’obiettivo di recuperare il ricordo di una passata situazione psicologica ottimale e di riuscire quindi a comunicarla. Per farlo, Fefer sfrutta l’opportunità di adagiarsi sopra un unica scala armonica su cui costruire l’arrangiamento che procede ordinato e lineare. Ribot si adatta alla situazione utilizzando sempre un timbro di chitarra quasi sottotono, anche se stavolta si avverte una leggera distorsione sonora. Si parlava, inizialmente, delle influenze colemaniane sulla musica di Fefer. Il brano che segue, Juba-Lee, che nomina l’album, è la dimostrazione più lampante dell’influsso free assorbito dal nostro sassofonista. Al di là della dimostrazione di gioia intensa che il titolo suggerisce, si manifesta l’occasione di uscir fuori dalle righe, non solo per il sax, ma anche per Ribot che in queste libere parentesi ci va a nozze. Il suono della chitarra si allunga accompagnando Fefer nelle sue escursioni, ma anche dilettandosi in un complesso quanto frastornante assolo, seguito a ruota dalle caotiche rullate di Taylor, nonché dai robusti appunti al contrabbasso di Revis. Sul finire, comunque, si ritorna nei ranghi dopo aver sprizzato energia da tutti i pori. Brother Ibrahim è stato inciso per la prima volta su un altro disco di Fefer, Shades of the Muse (2003), e composto durante la guerra in Iraq. Il brano intende essere un inno alla fratellanza umana, notando come il nome dell’Autore, cioè Avram, sia una variante ebraica di Abraham e dell’arabo Ibrahim, come a dire che se le variazioni ortografiche tradiscono comunque una stessa radice linguistica, anche tutti gli uomini sono parte di un’unica famiglia, nonostante le loro apparenti diversità. Un giro di contrabbasso e un tema all’unisono tra sax e chitarra si affacciano in un mood che risulta da una mescolanza di suggestioni curiosamente sudamericane e medio-orientali. Il sax trova tempo per qualche excursus fuori tonalità mentre la batteria impazza di gioia di vivere ma è tutto il brano a palpitare di tangibile ottimismo.

Con Love is in the Air Fefer vorrebbe letteralmente soffiare philia attraverso il suo strumento approfittando di note prolungate che ricordano da vicino i suoni “spaziali” di Coltrane. Non c’è un ritmo definito ma la batteria è libera di smaniare in visioni luminose con l’uso continuo dei piatti, ben sostenuta dal robusto incedere del contrabbasso. La chitarra cerca una sua collocazione, manovra non semplicissima nell’aria satura di sonorità del sax. Un brano molto intenso ma che appare come un autorevole soliloquio da parte di Fefer, probabilmente nell’unico momento in cui l’Autore concede più spazio a sé stesso. In Gemini Time, nell’ancia del sax soffia una stretta e sincopata angolatura parkeriana, con l’unisono tra Fefer e Ribot che rimanda al be-bop dei tempi d’oro. Anche la chitarra si getta in avanti in un assolo però non troppo convincente, con diverse incertezze perché forse l’improvvisazione in questa modalità stilistica dei tardi anni ’40 non è centratissima nelle corde di Ribot. Invece Fefer vola come il vento, passando con disinvoltura tra Parker e Coleman. Il contrabbasso si evidenzia in un buon assolo, ben servito dal groove di batteria di Taylor. Sul finale torna l’unisono tra sax e chitarra confluendo entrambi nel guizzante movimento be-bop segnalato all’inizio del brano. Say you’re Sorry ha un titolo un po’ polemico, idealmente rivolto a quelle persone che fraintendono sempre gli altri e non chiedono mai scusa dei loro errori interpretativi. Il tema, inizialmente accennato dal contrabbasso e dalla chitarra, secondariamente poi ripreso dal sax, è una sorta di mantra, racconta l’Autore commentando questo pezzo, che lo aiuta mentalmente a superare i momenti di esasperazione provocata da questi comportamenti narcisistici. Anche qui la forma complessiva è molto più free, mancando di un ritmo regolare, con tutti gli strumenti che, diciamolo pure, vanno un po’ per conto loro e solo quando la rabbia cessa, nella parte terminale del pezzo, si recupera il suono mantrico taumaturgico a cui alludeva l’Autore. Sweet Fifteen è una ballad dedicata alla scomparsa dell’intimo amico Greg Tate, scrittore e critico musicale, diventato la guida spirituale di questo disco. Mentre Ribot arpeggia una coppia di accordi in maggiore distanti un semitono tra loro, possiamo ascoltare la suggestiva voce del clarino basso, mirabilmente suonato da Fefer, che s’appoggia a questi accordi con una melodicissima e struggente serie di scale frigie, offrendo quel contrasto così efficace tra triadi maggiori d’accompagnamento e sviluppo di queste stesse scale dal profumo orientaleggiante. Finale quindi affrontato in coppia clarino-chitarra, senza la ritmica, che chiude l’album con questa ballata di vibrante bellezza.

Indubbiamente Fefer è un ottimo strumentista, dotato di una tecnica esecutiva non comune che gli permette di affrontare stili differenti uscendone sempre con la dovuta eleganza. È indubbio che la sua grammatica di base si sia fondata sul be-bop ma è altrettanto vero che il free lo affascina fortemente. Tuttavia Fefer non ne abusa, probabilmente attratto da una forma di jazz contemporaneo che lo prevede ma che non s’incentra esclusivamente su questo stile. Anche se a volte si procede su un gradino vertiginosamente stretto, all’ombra soprattutto di Ornette Coleman, Juba Lee si conferma un buon lavoro e sottoposto a numerosi ascolti non sembra perdere punti per strada. Non è opera crepuscolare ma densa di energia e vitalità, due ingredienti che non dovrebbero mai essere trascurati nella presentazione di ogni album di jazz d’autore.

Tracklist:
01. Showtime
02. Bedouin Dream
03. Sky Lake
04. Juba Lee
05. Brother Ibrahim
06. Love is in the Air
07. Gemini Time
08. Say You’re Sorry
09. Sweet Fifteen (for G.T.)

Photo © Clara Pereira, Eli Crew