R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

I luoghi dell’anima hanno delle qualità che li rendono unici. Lo Spazio perde spesso i propri confini smarrendosi in orizzonti del tutto inusuali ed il Tempo non ha più la stessa scansione. Ma non è solo la trasformazione delle kantiane forme a priori a rimarcare il valore di questi luoghi. Accade soprattutto che l’individuo entri in risonanza con quei territori e in qualche recesso segreto dello spirito si crei una particolare eco verso un mondo apparentemente dimenticato, in realtà solo quiescente sotto le scorie dell’abitudine. Non dimentichiamo che il luogo dell’anima non è una fuggevole immagine vista dal finestrino d’un treno ma un posto abitato, esplorato e interrogato da cui ricevere risposte spesso sibilline. Sono sollecitazioni che soffiano sulle braci del Profondo, tentando di riaccendere fuochi coperti dalla cenere. Quando – e se – l’anima si ridesta, la visione della realtà muta in qualcosa d’altro, più vicino all’essenza delle cose, al di là della loro strenua apparenza. Luca Aquino pare averne frequentati diversi, di luoghi dell’anima, dato che il suo più recente lavoro, Gadara, non è certo il solo album ispirato da località suggestive, in grado di evocare riflessi e sfumature emotive spesso inaspettate. Ricordiamo ad esempio l’esperienza di Amam (2009) registrato a Skopje in Macedonia, oppure Icaro Solo (2010), realizzato in una chiesa a Benevento, sua città natale, oppure ancora Petra (2017), in collaborazione con la Jordanian National Orchestra. Gadara, attualmente Umm Quais, è il nome di un’antica città greco-romana che si trova in Giordania vicino al confine israeliano, facente un tempo parte della decapoli, cioè un gruppo di dieci città-chiave poste presso i confini orientali dell’impero romano, tra la Giordania, la Siria e gli odierni territori d’Israele. Insieme ad Amman e Damasco, oggi rispettive capitali di Giordania e Siria, Gadara ed altre sette città costituivano una cintura di affinità culturali e politiche che rimase tale fino al II secolo d.C, quando l’imperatore Traiano istituì la provincia romana dell’Arabia, spostando un po’ più a oriente la linea del confine imperiale. Probabilmente, suonare nella corona suggestiva del teatro romano antico di Gadara posto in un sito archeologico collinare, penso possa equivalere a trovarsi realmente in un vero e proprio luogo dell’anima. Possiamo solo immaginare quello che Aquino stesso ha visto e che racconta nelle note stampa allegate, cioè la panoramica del lago di Tiberiade e dei suoi territori confinanti. Ovviamente l’Autore fa qualcosa di più, cioè prova a tradurre in linguaggio musicale il cumulo di sentimenti avvertiti nella sua esperienza, per far arrivare all’ascoltatore almeno qualche bagliore del suo totale coinvolgimento emotivo.

Aquino è un trombettista e flicornista che ha sicuramente attinto ad un insieme di diverse influenze. Lasciando perdere i soliti noti del jazzmi piacerebbe sapere chi, trombettista o no, non si sia mai fatto almeno lontanamente influenzare da Miles Davis o Chet Baker – con i suoi lunghi ed espressivi soffiati mi sembra plausibile avvicinarlo alla voce lirica e un po’ fumosa di Paolo Fresu, almeno per quello che riguarda le sonorità del flicorno. Sappiamo inoltre che Aquino ha metabolizzato anche lo spiritaccio del rock e a questo proposito ricordiamo il suo album dedicato ai Doors del 2015 e il disco allegato alla rivista Musica Jazz n°7 del 2014, dove vi erano inoltre rifacimenti dei Radiohead, di Bob Dylan e di Neil Young. Ma è indubbio che in un album come Gadara affiori una nuova, o quasi, componente d’ispirazione tradizionale medio-orientale che per esempio non si ascoltava in Petra, se non in modo velato. Questo è dovuto in gran parte alla scelta dei musicisti che hanno lavorato con lui, cioè il siriano Basem Aljaber al contrabbasso, i due giordani Humam Eid e Maen Al Sayyed al quanun, strumento cordofono che assomiglia al dulcimer, allo oud – l’antenato del nostro liuto – ed inoltre alle percussioni arabe. La formazione comprende inoltre due musicisti iracheni, Mohammad Albattat e Moyamad Saleh ai violini, l’italiano Rino De Patre alla chitarra e l’inglese Chris Mullender ai suoni elettronici. Questa eterogeneità di nazioni diverse nella selezione dei musicisti e il disegno della mano di diversi colori dell’artista Mimmo Paladino che appare in copertina suggeriscono inoltre quello che sembra essere il messaggio fondamentale di questo lavoro, l’ultima Thule per la salvezza del genere umano e del pianeta tutto, cioè un invito alla pacificazione e al superamento dei conflitti culturali. Proposito edificante, ovviamente, ma assai poco realizzabile, almeno per quello che se ne ricava dando una semplice scorsa alle notizie geo-politiche d’ogni giorno.

Al Amal – in arabo significa “speranza” – è il primo brano della raccolta che inizia con un suono prolungato di tromba, utilizzato come bordone. Al di sopra di questo drone, Aquino traccia una semplice linea melodica come un canto o una preghiera ripetuta che si perde lungo la frontiera del silenzio. Con Tag’s Smile si entra nel vivo del clima di questo album. Una parentesi di garbate percussioni insieme ad un paio di accordi reiterati di chitarra sono il substrato all’intervento di tromba che imposta un tema, anch’esso ripetuto, fino a quando le medesime percussioni marcano lo stacco con l’improvvisazione di Aquino. Sullo sfondo un violino e probabilmente il quanun sono la trama di sostegno della tromba che segue una linea molto orientaleggiante, salvo poi, verso la parte finale, passare ad un modus operandi meno tradizionale, avvicinandosi maggiormente a climi più occidentali. La chitarra cerca di esprimersi in una via di mezzo tra le varie suggestioni, seguita come un’ombra dal tambureggiare delle percussioni. Raksta è inizialmente un duetto tra violini, una lenta esposizione dal tono un po’ drammatico fino all’irrompere discreto del contrabbasso e delle percussioni. È la volta poi della tromba che s’inframmezza con gli strumenti a corda ma il tutto resta vicino alle tematiche tradizionali del medio-oriente, pur con qualche inserimento meno spiccatamente etnico. Il motivo procede con lenta sensualità in concomitanza di una efficace sovrapposizione tra oud e cordofoni, avvicinandosi per un mentre quasi ad atmosfere greco-balcaniche. Sul finale la tromba di Aquino sembra cercare soluzioni più jazzate. Quello che può sembrare ad un ascolto superficiale niente di più che una gradevole stravaganza si dimostra invece essere un lavoro di ricerca, di amalgama, d’integrazione simbolica e non solo strumentale tra influssi culturali differenti.

Khuta, inizialmente dondolata dal flicorno come una desertica barcarolle su due note di chitarra, s’aggrappa poi al contrabbasso in un’atmosfera notturna avvolgente che s’allarga tra oud e violini. Wheels not Walls dimostra un’iniziale allegria di fondo che s’avvale di un tema ritmico concitato condotto da violini “primaverili” e dalla chitarra, presto imitata dalla tromba. A questo segue una sorta d’intermezzo carico d’una certa tensione che tende a non risolversi e a prolungarsi mantenendo in stallo il brano fino alla ripresa del tema. Dharma è un bozzetto caricato dalla chitarra e dalla tromba, a mio parere poco significativo, nonostante l’approccio molto intimo e raccolto. Freemind segue la falsariga del brano precedente ma il senso della musica fin qui svolta mi pare sia andato perso. Si entra in un’altra orbita percorsa da pianeti diversi, un vago sentore sudamericano francamente alieno al discorso fin qui condotto. Firenze cerca un rapporto con una melodia di stampo italiano che ricorda il brano omonimo di Ivan Graziani mescolato a segnali medio-orientali che prendono poi il sopravvento nella seconda parte, cercando vie d’uscita più accentuate in senso jazzato. Sleeping Giant s’incentra su un arpeggio di chitarra e sulla tromba di Aquino che legge la melodia della stessa con una nota prolungata di bordone riuscendo comunque a creare un equilibrio dal profumo autunnale, molto più vicino al sentire della musica occidentale.

Siamo in presenza di un lavoro interessante, a tratti molto coinvolgente, in questo ultimo album di Aquino. Dalla seconda metà in poi si assiste però ad un cambio, pur parziale, di rotta. La tensione positiva della prima parte, la suggestione esotica, l’anima dei luoghi, l’intreccio progressivo tra dinamiche orientali e occidentali finiscono per esaurirsi, come se l’Autore avesse voluto perdere volontariamente di vista l’iniziale progettualità. Comunque resta sempre attiva l’ipotesi di Aquino come artista colto, curioso e sperimentatore. L’impegno di un album come questo, infatti, si proietta al di là degli stessi contenuti musicali per promuovere una visione ecumenica, interculturale e interrazziale, obiettivo, quest’ultimo, che l’umanità farebbe bene a perseguire senza perdere ulteriore tempo.

Tracklist:
01. Al Amal (2:56)
02. Tag’s Smile (7:29)
03. Raksta (7:21)
04. Khuta (4:08)
05. Wheels Not Walls (5:44)
06. Dharma (3:20)
07. Freemind (3:13)
08. Firenze (3:32)
09. Sleeping Giant (4:18)