R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Nella cultura italiana, ma forse anche in tutta quella occidentale, v’è un paradigma concettuale, per usare termini altisonanti, che è fortemente radicato nell’inconscio culturale di tutti noi, ovvero che i temi celesti abbiano poco a che vedere con i temi terrestri. Non esistono veri punti di congiunzione tra terra e cielo, tranne forse che nel momento della morte (per i credenti). Per questo motivo, mi è sembrato subito molto stimolante e dissacratorio il titolo di questo nuovo straordinario lavoro pianistico di Alexander Hawkins, ovvero Carnival Celestial, appena uscito per l’etichetta Intakt Records, che lo vede al fianco di Neil Charles al contrabbasso e percussioni e Stephen Davis alla batteria e percussioni, riuniti in questo incantevole Alexander Hawkins Trio. Se c’è qualcosa di completamente terreno è certamente il carnevale, la manifestazione più pagana che possa esistere, dove non c’è posto né per lo spirituale, né per il divino e quindi nemmeno per il celestiale o almeno per quello che celestiale significa in senso figurato. Il carnevale è carne, il celestiale è spirito.

Non so se Alexander abbia voluto giustapporre i due termini per gusto del paradosso oppure per provocazione, ma io non lo credo, poiché Alexander Hawkins, per formazione e per cultura, ha della musica un’idea certamente trascendente. Ricordo, per chi non lo conosca bene, la sua fervente passione per la musica d’organo, oltre che naturalmente per la musica classica. Credo quindi che Carnival Celestial non sia semplicemente un bizzarro ossimoro, bensì una allusione più profonda e, per la precisione, un’allusione a un modo di fare musica “materica” con tanto e tale sentimento da portarla ad essere, o meglio a diventare, celestiale e, anzi di più, perché per arrivare ad essere celestiale, l’arte deve passare attraverso l’uomo (e il carnevale è una manifestazione assolutamente umana). Su questo preambolo concettuale si innesta un discorso strettamente musicale che porta il magnifico trio a porsi ai confini del jazz, ma anche ai confini di un classicismo di ricerca (questo sì un vero ossimoro). In Make it new, Hawkins e i suoi straordinari musicisti riprendono questo imperativo categorico, attribuito al poeta Ezra Pound (ma che viene dalla notte dei tempi), per proporre composizioni che stanno al di qua e al di là del jazz. Hawkins cammina sempre su un confine, a volte lo supera, a volte ritorna sui suoi passi, una specie di zigzagare tra generi musicali, principalmente due, ovvero il jazz e la classica, ma anche altri, come avviene in questo disco alludendo alla vitalità ritmica della Calypso music. Un trio formato da pianoforte, contrabbasso e batteria, sembra essere l’idioma classico del jazz e la sfida di Alexander & Co. sta proprio in questo: una formazione prettamente jazzistica che porta a spasso la musica su terreni sconnessi, difficili e accidentati.

Ce ne rendiamo conto subito con Rapture che apre il lavoro, quasi sotto traccia, un distillato di piccoli suoni, sollecitazioni sonore provvisorie e quasi impalpabili che si presentano come il manifesto programmatico di tutto il disco, ed è il ben più vigoroso Puzzle Canon a darcene immediata conferma, con quel piano disarticolato che dialoga con un contrabbasso monocorde. Arriva subito di seguito una fuga, dove il contrappunto è mimetizzato dall’accavallarsi delle note nella magnifica Fuga, the Faste One ed è quasi impossibile non fare riferimento a una fuga in un compositore come Hawkins, quasi ossessionato da Bach. Ma è in Canon Celestial che tutto il disco sembra trovare la sua misura, il suo punto di equilibrio in una serie di continue variazioni, nella ripetizione di accordi dati e sostenuti da suoni delicatamente elettronici e da una batteria ripetitiva che amplifica il ricamo del piano. Ecco ricomparire, come un interludio una nuova versione di Rapture (stavolta chiamata Rupture) con il contrabbasso di Neil Charles nella sua forma più greve e pacata e il piano di Alexander che “pilucca” negli spazi lasciati vuoti. Sarabande Celestial è forse quello che, di tutti i pezzi dell’album, assomiglia più al jazz, mentre più meditativo, quasi “sospeso” è un brano dal titolo piuttosto misterioso: si tratta di Unlimited Growth Increases the Divide. E a proposito di titoli suggestivi ecco If Nature Were a Bank, They Would Saved It Already, il brano più elettronico dell’intero album, dove il pianoforte è sostituito dal sintetizzatore e la ripetizione quasi seriale dei suoni la fa da padrone. Aspettavo, sin dal principio del disco, di ascoltare Carnival Celestial e l’attesa è ricompensata da questa composizione complessa dove il pianoforte, vorrei dire nudo e crudo, porta avanti un discorso musicale fatto di piccole frasi che si compongono in un discorso, una specie di monologo asciutto e senza fronzoli, fino ad esaurirsi in un formidabile diminuendo, quasi un’uscita di scena silente. Lo stesso stile asciutto ed essenziale lo troviamo in Counterpoint Celestial, ideale proseguimento del pezzo precedente, seguito poi dall’ultimo brano il tortuoso e misterioso Echo Celestial con quel finale, quasi uno sfarinamento dei suoni, uno “stardust elettronico”, frutto di una superba maestria compositiva che ci lascia vaganti e smarriti, come dopo il passaggio di una meravigliosa cometa.

Tracklist:
01. Rapture (5:28)
02. Puzzle Canon (6:32)
03. Fuga, the Fast One (4:55)
04. Canon Celestial (3:18)
05. Rupture (4:53)
06. Sarabande Celestial (5:33)
07. Unlimited Growth Increases the Divide (5:03)
08. If Nature Were a Bank, They Would Saved It Already (2:51)
09. Carnival Celestial (6:22)
10. Counterpoint Celestial (6:51)
11. Echo Celestial (4:42)

Photo © Dawid Laskowski