R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Non mi piace la parola progetto. Tendo ad usarla proprio quando non ne posso fare a meno. Mi fa venire in mente uno studio d’architettura, una strategia politica, un’opera ingegneristica. Insomma, è un sostantivo che ha in sé la freddezza del calcolo ed è qualcosa che mal si adatta alla creazione artistica, in particolare in questa occasione. The Aunt’s House, album d’esordio dei romagnoli Cazale – non contando l’Ep del 2018 This is This – è invece la storia di un ricordo elaborato, riflesso nello scorrere del Tempo. Un’evocazione di spiriti buoni, quasi come quegli ancestors a cui i jazzisti africani si rimettono nella loro musica. Gli antenati che uniscono, quindi, che fanno sentire la forza di legami basati sulla terra d’origine nel dare un senso alla realtà delle nuove generazioni. Parliamo di una forma d’amore, una storgè che non si traduce in concetti chiusi e soffocanti, o peggio ancora distanzianti. È un viaggio a ritroso nella memoria delle case dei nonni, degli zii, con quelle luci, quegli odori e la fila degli oggetti intoccabili, fragili e misteriosi taboo di ceramica evidentemente testimoni di un piccolo mondo fatto di concrete certezze e di ricordi. È proprio su questa narrazione esistenziale e sul valore delle vite familiari che s’innesca il lavoro dei Cazale. Il nome del gruppo riguarda l’attore John Cazale, morto di cancro nemmeno quarantenne e che molti ricorderanno per essere stato un interprete malinconico ed emarginato nel Il Cacciatore di Michael Cimino.

La musica dei Cazale permette un inabissamento nella realtà della genetica, tutt’altro che sentimentale ma bensì pieno di autentico affetto, quindi ben lontano dalla zuccherosa pornografia della retorica. Quasi fosse l’inconscio desiderio di ritrovare un‘antica immobilità nel nostro mondo ultraveloce, quantistica espressione dell’indeterminatezza di una realtà che ci vede ancora impreparati ad accoglierla. La musica dei Cazale è un capolavoro di sintesi. Non si trovano ridondanze, nemmeno quelle disturbanze in odor di stranezza che sembrano essere il linguaggio comune di molte nuove formazioni alla ricerca comunque di visibilità, costi quel costi. Non so nemmeno se la loro musica si possa definire jazz o altro, sicuramente gli elementi costituivi sono molteplici ed alcuni di questi vanno a pescare, chissà quanto coscientemente, in certa musica inglese degli anni’80, forse fuoriuscita da quell’universo variegato che fu in quegli anni l’etichetta 4Ad, più per alcune sonorità chitarristiche che altro. Non è certo peregrino, per contro, l’accostamento coi Morphine ma ci si rende conto come certe influenze presunte siano più che altro ipotesi, non certezze assolute. Sicuramente il rock, per questa band, è stato d’importanza paritaria al jazz e lo si avverte dalle scansioni ritmiche, così come le parti fiatistiche spesso sovraincise sono più vicine a certe suggestioni jazzistiche quasi di natura orchestrale. Le tonalità emotive sono spesso sospese tra una drammatica sensazione di attesa e per altro verso stanno in bilico tra afferenze nostalgiche e riflessioni un po’ selvatiche. Il mondo musicale dei Cazale è essenziale quanto lievemente distorto, forse consapevole di un certa sensazione declinante della nostra civiltà e del potenziale sradicamento dei nuclei sociali. La formazione di questa band è strutturata attorno a Paolo Gradari ai sax e al clarinetto basso, Marco Ditillo alla chitarra elettrica, Gionata Sartini al basso elettrico e Luca Mengozzi alla batteria.
He Looked Like a Child che apre l’album, con quegli accordi di chitarra alla Cocteau Twins, presenta quella che è la vera protagonista del brano, cioè la voce femminile in sottofondo, con quell’eloquio percepibile tipico della cadenza romagnola. L’aspetto importante è risentirne il suono estratto forse da un vecchio nastro registrato più che per effetto di una ricostruzione artificiosa. Riascoltare le persone attraverso la loro parola, l’aver catturato una testimonianza intima che racchiude la loro essenza meglio di una fotografia, racconta molto di più riguardo a un individuo che non una pura immagine. Perché il suono di una voce possiede quell’empatia naturale e immediata che ci fa trasalire, come quando ascoltiamo casualmente tra la folla qualcuno parlare e che ci sembra di riconoscere. Dream in Color si apre con qualche nota di basso, subito seguita da accordi di chitarra in progressione discendente, a cui si sovrappone ben presto il sax e poi la batteria a tenere un tempo intero. Non ci si possono però fare illusioni né si può creare alcuna aspettativa. Infatti quello che sembra essere un motivo iniziale più caratterizzato in un’ottica prevalentemente jazz, con un dialogo tra l’ancia e la chitarra, diviene poi con l’innesco della distorsione di quest’ultima, un tema marcatamente rock progressive che conserva però nel suo intimo l’aria di una melodia popolare o addirittura bandistica. Riaffiora a tratti l’andamento scarno di una timbrica chitarristica velatamente malinconica. L’impatto di The Son Of The Farmer con quel semplice battito in 4/4 sovrapposto ad un riff di sax incrociato alla chitarra farebbe inizialmente pensare ad una rock ballad ma questa volta il fiato di Gradari ci porta in altra direzione. Lo strumento di Ditillo però non lascia mai la presa avvolgente, una sorta di melodica guaina che contorna la presenza del sax. Come se ci fosse una disciplina dei ruoli, con la chitarra che simula i pensieri legati al passato e l’ancia a raccontare, a commentare col suono quello che la parola non riesce a dire.

Rex sottintende da subito una propria combustione interna, creata da una tensione a trio innescata da chitarra, basso e batteria. Ma anche in quest’occasione la matassa sonora si sbroglia in ben altra direzione. Compaiono i fiati sovrapposti alludendo ad una melodia popolare, una canzone d’aristocratica tristezza che si fa largo tra le spallate rockeggianti degli altri strumenti recando con sé lo spirito di un Giano bifronte, un volto rivolto all’esterno e un altro che scruta dentro i propri pensieri. Rosetta, con quell’intro di battito lento che ricorda Repent Walpurgis dei Procol Harum, annuncia un’altra ricognizione spirituale in campo aperto, col sax che imposta il tema e che poi, nel crescendo prog distorto della base, pare avventurarsi in un’improvvisazione sentimentale, una stretta al cuore momentanea che sembra quasi un passo d’addio o comunque una sorta di allontanamento da un affetto. The Actor’s Trunk arricchisce il cifrario melodico in dotazione ai Cazale inizialmente con sequenze lente e studiate, quasi esitanti, per poi esplodere in un’oltranza sonora destinata a ripiegarsi su di sé nel tracciato finale. Forse c’è un eccesso di schematismo nell’impostazione di questo brano che però scompare nel successivo Microdance, sicuramente l’aspetto più interessante e imprevedibile dell’album. Un brano trascinante, impervio nei suoi inserti di chitarra e sax a tratti quasi rabbiosi, che si svolgono attorno ad un giro di basso avvolgente ben sottolineato dalla secca batteria di Mengozzi. Il focus emotivo si concentra sul vigoroso tema di Gradari e sui voluttuosi arpeggi chitarristici. Per me il brano migliore di tutta la sequenza di The Aunt’s House. Con The Front Line siamo all’epilogo, diviso a metà tra nostalgia e la fredda acribia con cui il gruppo analizza i propri sentimenti nei confronti dello sfumato confinarsi dei ricordi.
Ammetto di non essere molto imparziale nel recensire questo lavoro dei Cazale. In parte perché le mie radici familiari sono ancorate nella loro stessa regione di provenienza e questo, in qualche modo, permette un analogo sentire di tutte quelle strozzature esistenziali che la vita normalmente ci propone. D’altra parte la musica di questo gruppo dimostra, a suo modo, una certa solennità espressiva, con quell’uso dei fiati e della chitarra sempre a cercarsi, a sovrapporsi, fino a volte a pronunciarsi con tono drammaticamente enfatico. Ma in altre occasioni le dimensioni sonore si fanno più rarefatte, più raccolte e vellutate, a suggerire un posto delle fragole interiore, nascosto ma non soffocato dallo scorrere degli anni.
Tracklist:
01. He looked like a child
02. Dream in color
03. The son of the farmer
04. Rex
05. Rosetta
06. The actor’s trunk
07. Microdance
08. The frontline
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