R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Come sottolinea il suo autore Dominic Miller, Vagabond non è un disco incentrato sulla chitarra. Questo musicista nato a Buenos Aires ma vissuto per molto tempo tra USA e Inghilterra, tiene a rimarcare come il suo strumento, appunto la chitarra, sia solo uno tra gli altri che si esprimono in questo meditato album dai toni riflessivi e trasognati. Miller, da molti ricordato per aver condiviso palchi ed incisioni con Sting – fu coautore di alcune sue canzoni tra le più belle, come ad esempio Shape Of My Heart – sembra quasi un apolide dell’anima per essersi pienamente coinvolto con le narrazioni di molti musicisti con cui ha lavorato, tutti diversi tra loro, come Phil Collins, Bryan Adams, Peter Gabriel, Katie Melua, Nigel Kennedy e molti altri. Sicuramente Miller è uomo poliedrico e dalla numerose sfaccettature espressive ma i momenti con ECM – questo è il terzo album per l’etichetta tedesca, dopo Silent Light (2017) e Absinthe (2019) – sono forse quelli più rappresentativi che meglio riescono a tradurre le dinamiche più recondite dell’artista. Il lavoro di Miller è effettivamente una sorta di crepuscolare vagabondaggio attraverso un mondo malinconicamente accostumato e rarefatto. Il titolo dell’album allude anche ad una lirica del poeta inglese John Massfield, morto nel 1967, che rende bene il senso della musica che scorre su versi come questi “…Il paradiso per me è un bel tratto azzurro di cielo, la Terra è solo una strada polverosa”. E probabilmente oggi Miller è un cantore che si è scavato la sua zona di solitudine, un artista di stampo quasi romantico e dallo spirito errabondo che, arrivato ai sessant’anni, ha eletto come luogo adottivo il sud della Francia. Ma invece di restare abbacinato, come accadde per Van Gogh, dal sole accecante dell’estate, Miller pare prediligere colori più evanescenti, le primavere alla Odilon Redon per esempio, con quelle melodie che sembrano spesso tracciate in punta di pennello. Le sue letture del mondo, a prima impressione, appaiono sibilline ma il simbolismo è lieve e gentile, facendo trasparire la sua indole da raconteur affascinato, come lo fu Massfield – poeta amatissimo dal padre dell’Autore – dalla Natura nel suo quieto manifestarsi.

Potremmo affermare che Vagabond è un album suonato in punta di dita, un passaggio in cui la dimensione meditativa, il continuo rimando tra l’Io e le sue riflessioni, si realizza in un insieme bilanciato di interventi emozionali condotto oltre che da Miller alla chitarra, da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria.

All Change inizia con un leggero arpeggio di chitarra a cui si accodano via via gli altri strumenti. Un insolito mood drammatico, ma sempre marcatamente melodico, sfiora le rive della tristezza impegnandosi in un moderato crescendo dialogico tra pianoforte e chitarra. La ritmica, al di sotto, legge sinotticamente lo svolgimento delle armonie. Cruel but Fair sa di rimembranze proustiane che si svolgono in un insieme strumentale di meditata lentezza. Sussurrano le spazzole del batterista, le corde della chitarra hanno voce calda e nostalgica. Il piano segue da vicino senza voler alterare il fragile equilibrio, il suo assolo è sognante e poetico e si spegne col tramontare degli altri strumenti. Open Heart vive su un battito soffice di tamburo al seguito di un’intro di poche note di chitarra che impostano una melodia morbida e vellutata. Siamo ai confini del minimalismo ma non ci sono reiterazioni, le note viaggiano in direzioni sempre diverse tra improvvisi adombramenti e rasserenamenti successivi. Chiude Miller con una manciata di note dal sapore spagnoleggiante. Vaugines sembra la continuazione del brano predente, virando però verso la forma di lento flamenco che s’appoggia sul chiacchiericcio dei piatti della batteria. Ma è la chitarra a mantenere vivo il discorso con le sue note profonde, scansionate come sospiri, contornate da un piano argenteo di misurata essenzialità. Clandestin possiede quell’aura di vaga saudade che inizialmente s’avvale del lavoro combinato della coppia Miller-Karlzon, prima di essere raggiunta in un secondo tempo dalla ritmica. Questa volta è il pianoforte che s’impegna in un luminoso, subitaneo assolo, col basso che accenna persino a qualche lampo di fraseggio funky come cerniera tra il resto degli strumenti. La batteria si fa più secca e segna il ritmo marcatamente, mentre la chitarra si spegne progressivamente nella sua stessa melodia.

Altea modifica l’equilibrio fin qui impostato con un aumento di dinamiche soprattutto ritmiche ma il tutto avviene progressivamente, senza precipitazione. Anzi, le fasi iniziali fanno pensare ad un’impronta moderatamente più jazzy ed è il piano a innescare un fraseggio veloce cercando di trasfigurare la traccia creandole un profilo più insolito rispetto alla linea di moderazione fin qui mantenuta. Mi Viejo è una dedica al padre scomparso, figura evidentemente importante per Miller, dato che questo legame è stato ripreso indirettamente anche nel titolo dell’album. Il brano, per chitarra solo, si racconta in una dimensione privata, intima come un colloquio a tu per tu dove l’universo emotivo dell’Autore ha la possibilità di esprimersi al suo massimo. Una melodia struggente, in tonalità minore, che ricorda la vulnerabilità delle musiche europee tardo-cinquecentesche per liuto. Lone Waltz si presenta all’inizio come una storia a due tra chitarra e piano. Qui lo strumento di Miller pare sovrainciso, con una serie di armoniche di fondo su cui s’innestano le rade note della melodia portante. Poi batteria e basso prendono la rincorsa ed insieme al piano alzano i volumi ma solo per pochi secondi, dirigendosi poi verso un progressivo smorzamento delle sonorità. In quest’ultimo brano, lo strumento di Miller mi ha ricordato la chitarra new-age di William Ackerman, in particolare quella di un vecchio suo lavoro, Conferring with The Moon del 1986.

Ci sono tante emozioni che vengono comunicate sottovoce. Ad esempio le ninne-nanne, le dichiarazioni d’amore, le preghiere, le riflessioni tra sé e sé. Ciò accade anche in un album come questo, ricco com’è di poetiche meditazioni che spingono sul tasto dei sentimenti più minuti, quelli magari meno appariscenti ma oltremodo ricchi di riverberi interiori. Inoltre ci si accorge di come sia superflua una qualsivoglia analisi tecnico-strumentale perchè non è questa la primaria ricerca di Miller. Quello che veramente conta è invece la volontà di una prosa cristallina che si serva di un approccio minimo – non minimale – di note per indagare la primitiva semantica dell’animo umano. Parrebbe quasi che l’Autore s’impegni nel guardarsi allo specchio per cercare di leggersi dentro, scoprendo tutti quei piccoli risvolti dell’Io che stanno al di là dell’apparenza, anche a costo di pagare un prezzo salato alla malinconia.

Tracklist:
01. All Change (2:55)
02. Cruel But Fair (4:16)
03. Open Heart (6:48)
04. Vaugines (3:43)
05. Clandestin (4:11)
06. Altea (3:45)
07. Mi Viejo (2:06)
08. Lone Waltz (4:41)