R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Riguardo questo ultimo lavoro di Matt Elliott, The End of Days, possiamo prendere atto di come l’emozione ne sopravanzi la struttura. Un rado accompagnamento strumentale sostiene il canto, così tenebroso che pare provenire dall’interno di un pozzo senza fondo. Eppure, rarefatta o meno, la musica, alle volte solo di una chitarra, accompagna il canto come un cane fedele il suo padrone e riesce con pochi tagli sonori a focalizzare la drammaticità dei momenti più espressivi di quest’album. Alla stregua di un Werther non più così giovane – Elliott è alle soglie della cinquantina – che resta avvolto dalla sehnsucht ben oltre l’adolescenza, il musicista britannico procede oltre il puro cantautorato, al di là del folk, alle spalle di quel dio ambiguo che un giorno, forse, deve avergli promesso l’impossibile. Ecco quindi che tutto l’arco di The End Of Days è un lungo gospel oscuro che tenta di riaccendere un’alleanza divina ormai tradita, allungandosi tra il buio e la crepuscolarità di certi madrigali cinquecenteschi, melodie mediterranee tese tra l’Andalusia e Coimbra, via via verso l’Est fino alle isole greche e ai Balcani. Pochi gli strumenti strategicamente posizionati, a volta un bandismo che ricorda i cortei funebri del meridione italico, con tanto di grancassa, ottoni e cavalli con palandrane nere, poi una chitarra classica ben pizzicata, un sax che sembra suonato da un Albert Ayler in versione folk-song, qualche nota sparsa di piano e violoncello.

Un po’ per volta una musica aedica si sparge per le strade e per le piazze, entra dalle finestre aperte delle case ed afferra le persone raccontando loro una storia di lontananze che evoca un vago senso di abbandono e di occasioni non colte. Dev’essere questo il motivo del sortilegio nella musica creata da Elliott, cioè la sollecitazione dell’archetipo del dubbio, il risveglio dall’illusione della speranza, il ricordo di estati lontane dissolte nel tempo. Il titolo stesso dell’album, ponendo l’accento sui giorni che vanno a terminare, evoca uno spegnimento progressivo, una dissoluzione nirvanica, l’illanguidimento della luce dove e quando diventa necessario fare i conti con sé stessi. Così, un brano dopo l’altro, questo Leonard Cohen anglicano – o forse sarebbe meglio chiamarlo un Tom Waits bristoliano – ci accompagna nella sua lunga e lenta scivolata ai margini, con quel suo modo conturbante di raccontare, di avvolgere l’ascoltatore tra le sue ali come fosse un angelo consolatore o, per contro, un infausto demone dell’accidia. In effetti, il percorso artistico di Elliott è stato lungo e travagliato e si svolge attorno a un trentennio di musica attraverso il quale l’Autore ha modificato la sua rotta musicale ed evidentemente la sua tipologia di vita. Dai frequenti rumorismi originatesi sotto le spoglie di , le asperità più grezze si sono via via sciolte in una progressiva rarefazione di architetture musicali e questo ha sicuramente a che fare con la sistemazione di Elliott in Francia, in un’abitazione lontana dalla città – “…l’influenza innegabile…di non avere vicini di casa…” [cfr. intervista a Davide Ariasso-Onda Rock 2020] – e dalla fascinazione per la musica popolare greco-balcanica. Da questa mutazione esperienziale ne è derivato un disco che ha in bocca l’amaro sapore dell’abbandono, significando tutt’altro che una bellezza pacificata. Parlerei piuttosto di un rassegnato cantico per anime smarrite, un sentito omaggio alla disillusione, ma tutto compartecipato ad un sentimento nostalgico, legato cioè al dolore del ritorno a sé, dopo aver vagabondato senza una meta precisa per così tanti anni. Elliott, oltre alla sua voce da chansonnier – ma con un ragno che vi abita stabilmente nella gola – suona bene e con tocco preciso una chitarra classica, inoltre interviene suonando il sax. Accanto a lui il polistrumentista David Chalmin al piano e che si occupa degli arrangiamenti, Gaspar Klaus al violoncello e Jeff Hallman al basso.

The End of Days, brano di apertura omonimo dell’album, risente abbastanza da vicino dell’influenza di Yann Tiersen che mescola melodie da dopoguerra francese con arie di provenienza ellenica e vagamente medio-orientali. Una Suzanne reincontrata dopo quasi sessant’anni non è più l’amabile fanciulla d’un tempo e nemmeno il suo amante è lo stesso di prima. La canzone porta con sé il peso dell’esistenza che transita ineluttabile alle nostre spalle ed è una melodia femminea, una lamentazione che paradossalmente inizia con un accordo in maggiore, un Mi bemolle aggraziato dall’aggiunta di una settima plus. Il timbro grave del canto si espande con delicata lentezza, sconfinando verso l’incertezza degli accordi in minore. Un deciso cambio di tono, quindi, con un cantilenante, continuo e rauco sussurro alla Cohen. Poi la chitarra in coppia col piano ad evocare un sirtaki obnubilato da troppo ouzo, in un crescendo di fiati, bouzouki ed archetti che sfregano corde di violoncello. Uno stile come il rebetiko, amato anche da Capossela, personaggio che mi sembra possa condividere con l’Elliott di oggi la traghoudia dell’esistenza.

January’s Song inizia come un lento valzer di marca barocca con una sovrapposizione di chitarre evocanti il passo antico del liuto. Poi uno strumento ad ancia – forse un sax – che entra abbinato al violoncello, al piano e ad altri strumenti cordofoni. Il canto corale, cupo e malato di tristezza è quasi privo di pulsione salvifica ed evoca un corteo che celebra un inglorioso capolinea. Ma la Bellezza di questo brano è assoluta, piena di riferimenti slavi, un perdersi nel nulla di una stagione morta sostenuto da un suono disadorno, plumbeo eppur tenuto insieme dal collante di un’austera compostezza formale. Non è che l’umore generale migliori di molto con Song of Consolation, con la voce vetrosa di Elliott che s’adagia sui nervi come un oppiaceo. C’è sempre abbondanza di accordi in tonalità minore, un sax melodicissimo e disperante ed un bel contrabbasso che segue con le sue corde a ribadire le toniche. Quando la voce s’alza di due ottave diventa più melodica e conserva sempre il suo fascino desolato. Tutta la canzone gioca sé stessa nell’ambito di una sanguinante essenzialità strutturale, nonostante l’intreccio ben arrangiato tra gli strumenti, ma come accennato all’inizio ciò che veramente conta in questo ambito è l’emozione che ne scaturisce, nera e profonda, piuttosto che l’attenzione alla costruzione armonica oscillante su pochi accordi e sempre quelli. Healing a Wound Will Often Begin With a Bruise porta un titolo bellissimo, “la guarigione da una ferita inizia spesso con un livido” ma già di per sé suggerisce il livello d’ottimismo che si respira da questo album. Le prime quattro note di chitarra hanno fatto sobbalzare il vecchio sessantottino quale sono perché incappano, ovviamente in modo accidentale, nell’abbrivio dell’Internazionale Socialista. Il brano procede comunque autonomamente ed è solamente suonato, con qualche canto di uccelli in sottofondo. A discapito del titolo – o forse proprio per quello – questa volta si utilizzano accordi in maggiore che, insomma, un po’ più di fiato sul tono dell’umore provano a immetterlo. Questo è comunque la traccia a mio giudizio meno soddisfacente e resta poco più che un lungo, piacevole intermezzo con citazioni fuggevoli a cavallo tra Debussy e Nino Rota. Flowers for Bea ristabilisce le misure un po’ disperanti che si ascoltano in questo album ma al di là di una sciocca ironia va da sé che è tutto terribilmente bello, coinvolgente, agro e fosco nello stesso tempo. L’incrocio in assolo tra le corde, le soffiate di sbieco del lancinante sax, il battito del contrabbasso e la chitarra elettrica distorta – in qualche misura inaspettata o forse no, se c’è effettivamente un metodo a tutto questo – ci portano verso l’epilogo del brano, una vera e propria marcia funebre in 2/4, il ritmo del passo e del cammino utilizzato nelle danze più gioiose popolari come nei momenti più drammatici dell’esistenza umana. Persino la voce, nelle battute finali, perde l’orientamento, riverberandosi e riflettendosi in un mare di specchi per cui giunge sempre più sfumata e lontana alle nostre orecchie. Con Unresolved, giocata su un passaggio tra I° maggiore e IV° minore che mantiene l’incertezza tra la gioia e il dolore, si chiude la sequenza dell’album.

Se la tristezza vi spaventa non ascoltate questo disco. Se avete una predisposizione genetica alla sindrome depressiva, nemmeno. Ma se sapete calarvi nei territori inattesi della mente, se non avete timore di perdervi, allora un viaggio insieme a Matt Elliott dovreste proprio farlo. In particolare con questo disco. Consideratelo un rito di passaggio, attraverso territori di paralizzante Bellezza, se non altro per gustare la misterica fragranza di un Altrove altrimenti, per molti, irraggiungibile.

Tracklist:
01. The End of Days (9:57)
02. January’s Song (5:22)
03. Song of Consolation (5:50)
04. Healing A Wound Will Often Begin With a Bruise (8:13)
05. Flowers for Bea (12:34)
06. Unresolved (3:59)

Photo © Léa Jiqqir, Ettore Castelani