Intervista di Giovanni Tamburino, immagini sonore di Valentina Brosolo
Sono le 22 circa quando io, Valentina e alcuni amici superiamo l’ingresso del Circolo Magnolia per il Fresh Touch Festival, commossi alla vista di un banchetto che offre spray anti-zanzare a chiunque abbia bisogno di tregua per godersi una splendida serata di metà luglio tra amici, birra, mercatini pieni di LP e splendidi disegni, ma soprattutto tanta ottima musica.
Ci sono la stragrande maggioranza degli artisti del momento e quelli che ormai sono delle vere e proprie autorità della musica italiana dei nostri giorni. Nomi come Ghemon, Colombre, Canova e tantissimi altri, ma noi siamo qui per un nome ben specifico, un nome che non si può scindere dall’origine di questa band: sono i Fast Animals and Slow Kids e – come da rito – vengono da Perugia.
Iniziamo un po’ a girare tra gli stand e, nemmeno a farlo apposta, ci imbattiamo proprio nel cantante, Aimone Romizi, circondato da amici e fans. Ci avviciniamo a salutarlo e, dopo un attimo, ci riconosce ricordandosi della chiacchierata di quaranta minuti che avevamo avuto nei camerini dell’Alcatraz prima del loro trionfale concerto di marzo qui a Milano. Scambiamo due parole, è un po’ preoccupato perché sotto il palco grande – dove una mezz’oretta dopo i FASK sarebbero saliti – c’era pochissima gente. Ci scherziamo su, certi che sarebbe stata solo questione di tempo prima che buona parte del Magnolia si riversasse lì davanti, e ci separiamo da lui dopo avergli augurato in bocca al lupo. Come se ne avessero bisogno.
Alle 22,45 la nostra previsione si avvera con puntualità esaltante. Un gran numero di gente è già lì, pronta alla prima nota dell’arpeggio di Coperta. La band sale sul palco, la reazione è istantanea, il boato e i salti sono incontrollabili. La folla canta all’unisono, ognuno con in cuore i propri addii e i propri inverni, con una storia da raccontare che forse non verrà mai alla luce, ma «DAMMI UN’ALTRA COPERTA»!
I FASK sono lì sul palco, come degli eterni bambini davanti al loro regalo di Natale. Aimone prende il microfono per salutare tutti i presenti a questo “concerto in famiglia”, una famiglia di migliaia di anime che cantano tutte la stessa canzone “con centomila ragioni diverse”, come diceva Dave Grohl. Questo è il fascino della musica, questo è il fascino dei nostri perugini: offrire storie in cui ciascuno possa rivedere la propria e scoprire quella di chi gli sta accanto, persino nella calca del pogo.
Gente che salta, balla, canta col sorriso sulle labbra. Non si esagera: questa è una famiglia. Una delle più belle.
Continuano con Calci in faccia e poi regalano alcune delle perle dell’ultimo album: Giorni di gloria (facendomi inorgoglire di aver acquistato giusto pochi minuti prima la t-shirt con un verso della canzone), Tenera età e Ignoranza.
Vanno avanti e indietro per la loro storia, tra i nuovissimi pezzi e quelli di Hybris come Canzone per un ebete, parte II e Maria Antonietta, concludendola con un arpeggio per collegarsi alla successiva Te lo prometto, introdotta da una intro a due tra piano e chitarra.
Aimone punta col dito il palco più piccolo, dall’altra parte dello spiazzo: è da lì che hanno esordito al Magnolia, davanti a una quantità di persone che «saremo stati trenta stronzi». Pochi metri dal main stage di questa sera, ma la strada è stata lunga.
Proseguono con Come reagire al presente e Il mare davanti, quasi l’inno di una generazione sconfortata e abbandonata dalle stesse proprie convinzioni. Anche qui l’urlo di uno è il ruggito di tutti, mentre l’ultima disperata strofa si spegne nel buio, nella notte, nel silenzio.
Dopo aver sbraitato contro il cielo sul finale, sorge la domanda: questa la fine? È questo che siamo? Il nostro destino è un’incompresa sofferenza anestetizzata e priva di ogni possibilità di salvezza?
Magari no. Magari c’è una ragione se l’encore del concerto è affidata a tre pezzi in particolare, un rapidissimo concept tra un’Annabelle, che vaga in mezzo ai ricordi di un passato che non vuole staccarsi da noi – o forse siamo noi che non vogliamo abbandonarlo? – la febbrile voglia di rivalsa, di schiantarsi a costo della vita pur di non abbandonarsi senza potersi ribellare, alla certezza kamikaze che «brucerò entro due anni» di A cosa ci serve, per lasciare il finale alla title track del loro ultimo lavoro: Forse non è la felicità.
La batteria avanza, scandita e inesorabile, assieme alla chitarra, mentre la voce si fa sempre più alta, per ritornare giù un attimo prima del culmine ed esplodere finalmente nel ritornello e ancora sul finale, col pubblico che continua a ripetere che forse non è la felicità, forse non è la felicità.
E forse non lo è davvero. Forse non è la risposta che meritiamo, forse non è quella di cui abbiamo bisogno.
Quello di cui si può essere certi è che tutta la gente qui presente in questa serata di metà luglio ha dato e ricevuto insieme tutta la propria vita, tra un wall of death e una birra, che siamo stati una famiglia e che lo ricorderemo ogni volta che metteremo su le cuffie.
Il resto lo scopriremo camminando. Insieme.
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