L I V E – R E P O R T


Articolo e immagini sonore di Stefania D’Egidio

La terza edizione di JazzMi si impreziosisce della presenza di un mostro sacro della musica, Chick Corea, tra i pianisti più famosi e premiati della storia, pioniere della sperimentazione, capace di esplorare diversi generi musicali e alle spalle un curriculum vitae lungo quanto la Divina Commedia. Vincitore di ben ventidue Grammy Award, vanta collaborazioni con artisti di fama internazionale, da Miles Davis a Keith Jarrett, da Al Di Meola a Pat Metheny, da Herbie Hancock a Bobby McFerrin, da John Patitucci al nostro Pino Daniele, con il quale nel 1993 vinse la Targa Tenco per la canzone Sicily.

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La lista è davvero lunga, siamo davvero alla presenza di una figura monumentale della musica, che, ieri sera, al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, ha impreziosito con la sua presenza questa III edizione del JazzMi e quale location migliore se non il tempio della musica milanese, affermato sia a livello nazionale che internazionale e nella bellissima sede dell’ex convento accanto alla Chiesa di Santa Maria della Passione? La serata è sferzata da un vento gelido, con nuvole che non promettono nulla di buono. Arrivata in via Conservatorio mi metto in coda per il ritiro degli accrediti, uno per le foto e l’altro per il report; mentre sono in fila sento gli altri parlare in gergo tecnico, si capisce che il pubblico è composto per lo più da musicisti. Giunto il mio turno mi viene detto che la Policy prevede che si fotografi solo durante la prima canzone, poi tutti a sedere, comprensibile, visto che si tratta di un concerto per solo pianoforte.

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Entrata all’interno, inganno l’attesa con un’apericena, sono un tantino emozionata, mi sento un pesce fuor d’acqua in un ambiente così chic, abituata a ben altri posti, tra zanzare e folle urlanti. Le 21.00 si avvicinano, le porte si aprono e mi posiziono con il mio monopiede lateralmente al palco, per non coprire gli spettatori; il pianoforte a coda è posizionato al centro, dietro alcune file di sedie dove potranno sedersi pochi fortunati fans, a brevissima distanza dal proprio beniamino. Dopo le raccomandazioni di rito dello speaker le luci si abbassano leggermente e Chick fa il suo ingresso, in outfit semplicissimo, jeans scuri, scarpe da tennis, camicia nera sbottonata che lascia intravedere una t-shirt rossa. Prima di sedersi davanti alla tastiera rompe il ghiaccio parlando delle sue origini italiane, calabresi per la precisione, ricordando i suoi genitori e i suoi nonni, ringrazia il pubblico per l’accoglienza calorosa – evento sold out, come prevedibile – e scatta una foto ricordo con il suo cellulare.
La prima canzone è presa dal repertorio di un musicista da cui tutti i grandi hanno tratto ispirazione, George Gershwin, quindi un inizio degno di una grande serata all’insegna del jazz; cominciamo a scattare e, a sorpresa, neanche a metà canzone, veniamo invitati ad andare via perché dal pubblico qualcuno si è lamentato del click degli otturatori.
A malincuore e, a metà tra lo sgomento e l’irritazione, riponiamo l’attrezzatura nello zaino e guadagnamo ciascuno il proprio posto, non senza difficoltà: ci fanno storie anche per farci sedere, quindi guai ad arrivare tardi se avete intenzione di seguire un concerto al Conservatorio, io poi sono in una bellissima posizione, in quarta fila, dove sia la visuale che l’acustica sono perfette.

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Le melodie mi rapiscono velocemente, si passa da un brano di Chopin a pezzi di Paco De Lucia, riarrangiati per l’occasione al pianoforte, la prima ora di concerto scivola velocemente con il pubblico in una sorta di trance. Una breve pausa spezza in due la serata, la seconda parte è da brividi, tutta dedicata all’improvvisazione; Corea riappare sul palco raccontando della sua infanzia e annunciandoci che vuole fare una specie di gioco: improvvisare con davanti due persone del pubblico, la chiama “improvvisazione ritratto” ed ecco che, a turno, fa sedere accanto a sé prima una giovane ragazza e, successivamente, un ragazzo e, semplicemente guardandoli negli occhi, tira fuori dal cilindro due splendide canzoni.

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Ma non è finita qui perché, non pago di quanto fatto finora, decide di invitare qualcuno dalla platea a salire sul palco per una speciale jam session con lui: non fa in tempo a finire la frase che quattro persone si materializzano sul palco e, prima uno a uno, poi tutti e cinque contemporaneamente danno vita ad un piccolo show che lascia tutti esterrefatti, si capisce che c’è tanta qualità in sala stasera. Il concerto termina verso le 24.00, di nuovo con un brano di Paco De Lucia, con il pubblico che finalmente si scioglie in un coro di accompagnamento.
Una serata molto appassionante per me, diversa dal solito, abituata a tutt’altro genere di musica e spettacoli, però lasciatemi togliere qualche sassolino dalle scarpe proprio nei confronti del pubblico: ci sono fotografi che macinano centinaia di km per portare a casa qualche scatto, non li si può far mandare via semplicemente perché qualcuno non gradisce il click della macchina fotografica, ancor prima che finisca la prima canzone… ma poi, almeno per me, la musica dev’essere gioia, spontaneità, condivisione e ieri sera, invece, gli spettatori applaudivano, ridevano e cantavano solo a comando, quando venivano invitati a farlo dall’artista stesso, tutti ingessati e rigidi come le statue di cera di Madame Tussaud, se poi qualcuno osava, anche per sbaglio, tossire o starnutire veniva guardato con occhi iniettati di sangue da quelli delle prime file, manco fossimo ad una veglia funebre più che ad un concerto. Questo aspetto mi ha molto colpito perché mi è sembrato in netto contrasto con lo spirito del jazz, almeno all’origine musica di tutti e per tutti, nata per unire bianchi e afroamericani nei locali di New Orleans o di Harlem, in tempi ben più bui di quelli che stiamo vivendo ora. Insomma, se da un lato ho assistito a quasi tre ore di musica ad altissimi livelli, dall’altro sono rimasta molto delusa dalla spocchia dei radical chic milanesi…non c’è poi da sorprendersi se, a pochi metri dal Conservatorio, c’è gente che dorme per terra dentro scatoloni di carta, davanti agli sguardi indifferenti della gente.

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