Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Elly Contini
Siamo alla fine. Ben Howard ritorna sul palco per i bis, in compagnia di due soli musicisti della sua band allargata. “Siamo arrivati al momento in cui dovrei suonare le cose vecchie – dice in quella che è a tutti gli effetti la prima volta che si rivolge al pubblico – mi sento piuttosto a disagio perché normalmente mi piace essere connesso con il momento esatto in cui nascono le canzoni. Ho sempre voluto mostrare quello che sono in quel determinato momento, piuttosto che fare l’intrattenitore”.
Si potrebbe fermare tutto e stare un mese solo su questa affermazione, in effetti. Qual è il ruolo dell’artista? Cosa deve succedere durante un concerto? Cosa è giusto che abbia più peso, il presente o il passato? E ancora: ha senso, oggi, considerare i nuovi dischi allo stesso modo di come li consideravamo dieci anni fa? Non è forse vero che ormai per molti nomi, soprattutto per quelli con una carriera consistente alle spalle, rappresentano poco più di un utile pretesto per andare in tour?
In qualunque modo stiano le cose, Ben Howard se ne frega. I primi 75 minuti del suo concerto, più di due terzi dell’intero show, sono occupati dall’esecuzione integrale di Noonday Dream, canzone dopo canzone, in rigoroso ordine di tracklist. Unica licenza poetica, a parte le ovvie dilatazioni sui temi principali che i suoi musicisti si concedono volentieri, è lo snippet di Wild World di Cat Stevens, subito dopo l’interludio All Down the Mines.
Non aveva fatto così quest’estate, all’Anfiteatro del Vittoriale, durante la sua prima volta in Italia. Allora l’ultimo disco non era neppure stato eseguito tutto e i brani del passato si erano presi una fetta maggiore. È strano, perché normalmente sono i primi concerti del tour, ad essere costruiti maggiormente sul nuovo materiale. Man mano che si va avanti, di solito, il passato di un artista si prende sempre più spazio, anche e soprattutto per volere del pubblico.
Con lui non accade così ed è una bella cosa, questa. Innanzitutto perché Noonday Dream non può minimamente essere paragonato agli altri due prodotti della discografia del cantautore britannico: semplicemente non c’è partita. In secondo luogo, perché vuol dire che il suo autore è concentrato su quel che sta facendo ora, che considera questo il suo momento migliore e non vuole concedere nulla alla nostalgia dei bei tempi andati.
Il pubblico, purtroppo, lo ha seguito solo per metà. L’esecuzione dei nuovi pezzi è stata seguita con attenzione ma non con un’eccessiva partecipazione. Dall’altra parte, il boato che ha accolto la manciata di estratti da I Forget Where We Were non ha lasciato dubbi su che cosa i presenti sperassero davvero di ascoltare. C’erano anche tante persone distratte, purtroppo. Amici che hanno parlato tra di loro per quasi tutto il tempo, ragazze che facevano avanti e indietro dal bar, qualche coppia che si scambiava effusioni senza avere la minima idea di guardare una volta verso il palco… addirittura, quando lui e i suoi otto musicisti sono saliti on stage, c’è stato uno che ha esclamato: “Ma sono in tanti! Io credevo che avrebbe suonato da solo…”, affermazione che invita quanto meno a chiedersi se gli ultimi due dischi se li fosse ascoltati almeno mezza volta…
Ora, si potrebbero scrivere trattati da migliaia di pagine sul motivo che spinge decine e decine di persone a spendere 25-30 euro di biglietto per poi farsi i fatti propri in maniera tanto sfacciata da apparire inconsapevole, ma direi che non è questo il tema. Diciamo solamente che Noonday Dream è un disco meraviglioso (tra i migliori del mio 2018, anche se ancora non so se metterlo tra i primi dieci) ma anche particolarmente complesso e che può essere fruito e goduto dal vivo solo a patto di immergersi totalmente nella musica, senza perdersi nemmeno una nota. Sul palco succedono un sacco di cose, infatti, la formazione è la stessa di quest’estate, ci sono due batterie, un trio d’archi, le tastiere, due chitarre oltre a quella di Ben, qualche sequenza in loop. Un suono ricchissimo, con gli strumenti che si aggiungono e si tolgono a seconda dei momenti, l’acustica che improvvisamente diventa elettrica, gli archi usati spesso a bordone nei momenti in cui la distorsione è maggiore, i vari episodi che vivono di differenti cambi di atmosfera, ogni tanto deliziosamente Folk, in altri momenti, con la comparsa del vocoder e di altre piccole soluzioni elettroniche, assomigliano ad uno strano incrocio tra Radiohead, James Blake e Bon Iver.
Il tutto senza mai perdere l’immediatezza melodica perché se anche le nuove canzoni non sono dirette come quelle del primo disco, non si può certo dire che non sappiano come toccare le corde del cuore.
Sono dunque 75 minuti di intensità pazzesca, difficili ma anche di enorme soddisfazione, con un sapiente uso di luci e visual che ha reso il concerto senza dubbio più completo di quello di quest’estate, anche se indubbiamente la location di Gardone era tutt’altra cosa.
I bis vedono la dimensione acustica maggiormente presente, con due brani come I Forget Where We Were e In Dreams, mentre la lunga End Of the Affair è pazzesca nel suo fluire naturale dalla dimensione da ballad della prima parte, all’esplosione elettrica della seconda. A chiudere il tutto arriva Hot Heavy Summer, il brano realizzato assieme ai Sylvan Esso e uscito nelle scorse settimane. È il solito Ben Howard, con l’aggiunta della componente Synth Pop del duo del North Carolina, e anche dal vivo viene proposta in una versione molto simile.
Niente brani da Every Kingdom a questo giro, ma in fondo è giusto così: come sarebbe possibile mettere d’accordo il Ben Howard di oggi con quello del suo gradevole ma ancora acerbo debutto di sette anni prima?
Si parla tanto di Folk, New Folk, Alt Folk, cantautorato moderno e contemporaneo e altre cose del genere ma il talento del ragazzo di Richmond è in grado di travalicare qualunque definizione di genere per approdare in un territorio che è solo e soltanto suo. Interpretate in questo modo, allora anche le etichette possono avere un senso.
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