Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Claudia Losini
Il TOdays festival ha vinto la scommessa. Già punto di riferimento importante per i live estivi nel nostro paese, a questo giro ha voluto tentare il grande salto, presentando in tre giorni una line up stellare, composta da alcuni dei migliori nomi del panorama internazionale. Quasi nessun nome nuovo, si è preferito puntare su act consolidati, la maggior parte con almeno quindici anni di carriera alle spalle, tutti passati dal nostro paese, anche più di una volta in tempi recenti. Quindi niente esclusive ma un gruppo di artisti solido e di qualità altissima, che non ha nulla da invidiare ai più blasonati festival europei.
Quello che segue è il resoconto del secondo giorno (il primo lo trovate qui), con un breve schizzo per ciascuno degli artisti che ho visto suonare. Come sempre, non ho il dono della sintesi quindi sarà una roba lunga. Non siete però obbligati a leggere tutto: il nome di ogni act è in grassetto, quindi potete direttamente saltare a quello che vi interessa…

La giornata inizia all’insegna di due act giovani e, per quanto mi riguarda, ancora da testare. Molto bene Adam Naas, che sorprende un po’ tutti con la sua miscela viscerale di Funk e Soul. Punti di riferimento evidenti nella musica di Prince e Michael Jackson, il giovane francese rilegge tutto in maniera più ruspante e talvolta aggressiva, con una band che non eccelle in virtuosismi ma fa il suo e lo supporta egregiamente. La voce è ottima, con un’ampia gamma di tonalità ed un utilizzo del falsetto che, pur se a volte risulta eccessivo, non può non entusiasmare. Nell’arco dell’ora a disposizione vengono proposti i brani di “The Love Album”, uscito l’anno scorso e tuttora unico capitolo della sua discografia; e il tema attorno a cui ruota il disco viene più volte richiamato, attraverso un atteggiamento istrionico e spesso sopra le righe (basterebbe da solo il look improbabile con cui sale sul palco), che strappa più di un sorriso e lo rende senza dubbio vicino al pubblico.

Non si può purtroppo dire la stessa cosa per One True Pairing, che altro non è che il nuovo progetto dell’ex Wild Beasts Tom Fleming. Il disco uscirà il 20 settembre, al momento sono stati anticipati solo due singoli e, sinceramente, ero piuttosto curioso di vederlo in azione. La delusione però è tanta. Al di là della formazione, voce/chitarra e basi registrate, più qualche piccolo intervento di Synth, è il risultato finale a risultare parecchio moscio. Canzoni che sono una declinazione più cupa e rallentata della proposta della sua band precedente, feeling parecchio malinconico ma senza sussulti, penalizzato anche da una prova vocale piatta, che non valorizza per niente un timbro baritonale che, quello sì, è sempre stato degno di nota. Un live da dimenticare, che scorre via nell’indifferenza generale (anche questa è una nota significativa, all’interno di un contesto dove il pubblico è sempre mediamente attento) e che non ci fa certo venire voglia di dare una chance all’album in uscita. Per carità, lo faremo senz’altro ma a questo punto le aspettative non sono certo altissime.

Coi Low è tutta un’altra storia, per fortuna. Vedo la band americana per la quarta volta in meno di un anno ma non basta mai, è impossibile stancarsene. Ho già scritto più volte di loro negli ultimi mesi e non mi sembra il caso di ripetermi. Dico solo che è stato un altro concerto totalmente senza senso, per rubare un’espressione di Federico Buffa che, molto saggiamente, un amico ha utilizzato per descrivere quello che è accaduto sul palco. Nulla di umanamente spiegabile, eppure è lì e lo tocchi con mano. L’intesa tra Alan Sparhawk e Mimi Parker è qualcosa che va davvero oltre ogni capacità di razionalizzazione e che ogni volta sprigiona una bellezza che non può in alcun modo essere contenuta o incasellata. Bastano due o tre accordi per ridurre tutti al silenzio, la tensione nell’aria si percepisce fisicamente e al termine di ogni pezzo gli applausi e le grida di entusiasmo non hanno nulla di ordinario ed è evidente che siano il tentativo di spiegare quello che si è appena visto e sentito. C’è un momento, dopo i dieci minuti abbondanti di “Do You Know How To Waltz”, più della metà dei quali sono rumori e feedback che nascono dal gioco di basso e chitarra, col tutto che sfocia poi in una “Lazy” totalmente irreale. Al termine, l’applauso è talmente forte e dura talmente a lungo, che si ha la netta impressione che siano rimasti basiti anche loro: Alan ringrazia quasi imbarazzato, come se neppure lui potesse spiegare quel che è accaduto.
Unico difetto è che dura troppo poco ma anche qui vale il discorso fatto con gli Spiritualized: gruppi così li sentiresti suonare giorni interi, sarà sempre troppo poco. Ancora una volta una conferma pazzesca; adesso li attendiamo con un nuovo disco e, possibilmente, con un nuovo set, visto che per quanto bello, le canzoni suonate sono sempre più o meno le stesse.

Hozier headliner rappresenta una sorta di “quota giovane”, all’interno di una line up all’80% costruita attorno ai gusti dei 35-50enni. Il giovane irlandese non è uno per cui ci si possa stracciare le vesti ma i numeri che ha realizzato prima con il singolo “Take Me to Church”, poi con il secondo album “Wasteland, Baby!” vanno senz’altro guardati e dicono di un artista che ha avuto l’indubbio merito di rileggere una tradizione (in questo caso il Gospel e il Soul, infarcito però di elementi che rimandano al Folk britannico) in una maniera tale da renderla appetibile alle giovani generazioni. Una sorta di Ed Sheeran ma molto meno Pop, se mi passate il paragone forse non ortodosso.
Dal vivo è innegabilmente bravo: band di sette elementi, con una forte attenzione per l’aspetto vocale (cantano praticamente tutti) e una presenza massiccia di violino, percussioni, tastiere, hammond e chi più ne ha più ne metta. Ne viene fuori un sound pieno, anche se gli arrangiamenti non sono niente di che ed in diversi momenti si ha l’impressione che quello che fanno, potrebbero farlo anche con un organico inferiore. Ciononostante, la voce c’è e pure parecchio, il tiro ed il coinvolgimento anche. Per tutti gli ottanta minuti che dura si balla, si battono le mani e si canta senza difficoltà. Certo, il repertorio è quello che è, non tutte le canzoni fanno gridare al miracolo anche se episodi come “Nina Cried Power”, “Nobody”, “To Be Alone” e “Work Song” dicono certamente la loro.
Finale ovviamente dedicato a “Take Me to Church”, non prima di aver esortato i presenti a fare gli auguri di compleanno alla madre, presente dietro il palco a godersi il concerto.
Diciamoci la verità: nulla di imprescindibile ma neanche un fenomeno da liquidare con indifferenza. Si capisce che i puristi possano storcere il naso e non possiamo dar loro torto ma questo Hozier un suo valore ce l’ha eccome.

Questa volta è d’obbligo fare un salto all’Incet, l’ex area industriale dove normalmente si tengono i concerti di tarda serata, di solito con nomi più vicini alla musica da club. Personalmente non sapevo esattamente cosa aspettarmi dalla Cinematic Orchestra, non avendola mai vista dal vivo, anche se l’altissima qualità dell’ultimo “To Believe” faceva senza dubbio ben sperare.
Superata la lunghissima fila (per fortuna scorrevole ma il timore di non arrivare in tempo c’è stato) si entra per scoprire che in realtà in parecchi sono qui per ballare ma non hanno una grande interesse per quel che sta per accadere. Peccato, perché l’esibizione del sestetto britannico è un qualcosa che ricorderemo a lungo. La band di Jason Swinscoe si rende protagonista di un’ora e mezza a livelli pazzeschi, dove l’esecuzione dei brani del repertorio è spesso un pretesto per lunghissime ed intricate improvvisazioni in chiave Jazz, in cui la perizia esecutiva non tralascia mai la componente emozionale (roba ardua ma allo stesso tempo godibile, insomma). C’è la presenza di una cantante eccezionale come Heidi Vogel, che dice la sua in circa la metà dei brani, imponendo la sua personalità in maniera schiacciante e c’è Tom Chant al sassofono e al clarinetto che è totalmente in stato di grazia. Impossibile descrivere a parole un live che ci ha tenuto totalmente incollati, facendoci a volte dimenticare di respirare. Perfetta fusione tra l’elemento strumentale e quello più prettamente elettronico, con console e loop station a dare una spinta in più a tutto quello che questi mostri suonavano sul palco, così come anche l’inserimento di un paio di pregevolissimi momenti acustici. Non esagero affatto se dico che si è trattato di uno dei più bei concerti che ho visto in vita mia. Assieme ai Low, gli assoluti trionfatori di questa edizione. Nessuno degli artisti che si esibirà domenica sarà in grado di raggiungere questo livello, ne sono abbastanza convinto.







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