L I V E R E P O R T
Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Alessandro Pedale
Partiamo da una considerazione personale: chi mi conosce si stupirà certamente di sapere che sono stato spettatore di un concerto degli Strumbellas, conoscendo bene la mia avversione per band della nuova ondata Folk come Mumford and Sons, The Lumineers, Of Monsters and Man e cose così. Per carità, benissimo quando il genere è declinato con una certa profondità e sofisticatezza (vedi Midlake, San Fermin, i primi Avett Brothers, i primi Band of Horses, The Decemberists, ecc.) ma quando ci sono ingenuità melodiche, ammiccamenti adolescenziali e banali contaminazioni di Pop radiofonico, rimango piuttosto freddo a riguardo.
Ecco, gli Strumbellas appartengono in tutto e per tutto a quest’ultima categoria e, se funzionassi solo ed esclusivamente con il metro della coerenza, dovrei schifarli fino alla morte. Invece, contro tutte le le previsioni, mi piacciono, mi sono piaciuti fin dal momento in cui mi sono imbattuto in “Spirits”, attualmente la loro più grande hit, li ho intervistati (e sono decisamente simpatici, ve lo assicuro), li ho visti dal vivo e posso dire che sia stato un bel concerto, con tutti i limiti del caso, come a breve dirò.
Anzi, probabilmente è proprio la dimensione live quella che permette di capire davvero che tipo di band abbiamo di fronte: i sei di Toronto infatti, a dispetto di un songwriting semplice e a tratti persino ingenuo, si distinguono per un’assoluta genuinità; quella stessa genuinità che, per intenderci, mi aveva così colpito nei Mumford and Sons, all’epoca dei loro esordi. Già, perché quella band, nel periodo dei primi due dischi, mi piaceva parecchio e oggi, nonostante i canadesi abbiano un repertorio sicuramente inferiore sul piano qualitativo, possono essere considerati i loro eredi diretti, almeno per quanto riguarda un certo modo di intendere la musica, soprattutto dal vivo.
Rattlesnake, il loro ultimo disco in studio, ha se vogliamo amplificato tutte queste caratteristiche: molto più Pop, molto più orecchiabile, molto più ruffiano. Melodie irresistibili nonostante la loro semplicità e, talvolta, la loro scontatezza. David Ritter e compagni sanno cosa vuol dire intrattenere e, a patto che si accetti di collocarli al giusto posto, si può davvero dire che siano una grande band.
Il Santeria non è pieno ma i presenti sono entusiasti e l’atmosfera si fa caldissima sin dalle prime battute: si apre con “We Don’t Know” e “Young & Wild”, due brani tratti dal precedente “Hope” ed immediatamente il pubblico si scatena saltando, ballando e cantando i ritornelli a squarciagola.
Del resto la cifra del concerto è unicamente questa: saltare, ballare e stare bene. Lo dicono anche loro, prima di introdurre il nuovo singolo “Salvation”: “Se siete venuti qui per ballare, questa è la canzone giusta!”. D’altra parte la musica della band non offre molto di più: non è particolarmente sofisticata, non presenta momenti intimi o riflessivi. È un’unica incessante ondata di energia positiva, sprigionata da sei individui che, lo si capisce, sono amici tra di loro e sul palco si divertono tantissimo.
Ne risultano 80 minuti intensi e bellissimi, che trascorriamo muovendoci al ritmo delle canzoni e col sorriso perennemente stampato in faccia. In un’atmosfera così bella e serena, è facile passare sopra al fatto che i suoni, questa sera, sono fatti decisamente male, con la batteria troppo rumorosa, le tastiere troppo basse ed una resa generale che assomiglia molto ad un pastone informe (non aiuta neppure il fatto che loro non spicchino propriamente per doti tecniche individuali).
Non si tratta di elementi che influiscono più di tanto, però: un po’ perché il pubblico non sembra farci caso, un po’ perché l’energia sprigionata è tanta e il grado di coinvolgimento risulta elevatissimo.
Concerto piacevole e divertente, dunque, con Simon Word e David Ritter che interagiscono in continuazione col pubblico, raccontando le loro mangiate della sera precedente a Roma, promettendo una maglietta in regalo ad una ragazza della prima fila che aveva indovinato chi della band avrebbe vinto un’ipotetica gara di corsa, scherzando e facendo battute di ogni sorta.
Tra una cosa e l’altra ovviamente si suona e anche se ci sono sbavature e un po’ di confusione, la resa dei pezzi è sufficientemente energica da farci muovere a dovere. Da “Running Scared” a “One Hand Up”, alle vecchie “Left for Dead” e “The Sheriff”, fino ad approdare ovviamente alla nuova hit “I’ll Wait” e al mega classico “Spirits”, che garantiscono sing along a profusione.
Ci sono anche un paio di momenti acustici, come una bella versione di “Sailor’s Blues” cantata senza l’ausilio dell’amplificazione, che ha messo in evidenza un bell’impasto vocale da parte di tutti i componenti del gruppo; e poi nei bis, subito prima della conclusiva “Shovels & Dirt”, una “Soup” dei Blind Melon eseguita in coppia da Simon e dal chitarrista Jon Hembrey.
Non saranno dei fenomeni, ed è più che probabile che vi beccherete qualche sfottò se confesserete che vi piacciono. Sia come sia, andare a vedere gli Strumbellas anche solo una volta nella vita è un qualcosa che può fare davvero bene, fidatevi.
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