R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
In un’ipotetica collocazione tra i jazzisti più significativi, dagli anni ’60 ad oggi, temo che Joe Chambers non verrebbe adeguatamente considerato. Il suo problema, se così possiamo chiamarlo, è stato quello di lavorare accanto a dei grandissimi nomi di artisti che scelsero lui come batterista ma che nel contempo, ovviamente non in modo consapevole, ne oscurarono giocoforza la personalità. Parliamo di pezzi da novanta come Archie Shepp, Wayne Shorter, Freddie Hubbard, Chick Corea, Charles Mingus, Miles Davis e l’elenco potrebbe tranquillamente prolungarsi per un bel po’. Negli anni ‘60 Chambers ha collaborato come sideman in una ventina di sessioni per la Blue Note, mantenendosi sempre fedele, anche con eccessiva modestia, al suo ruolo di cooperatore e nonostante le frequenti richieste posticipò di gran lunga la data del suo debutto come leader per l’etichetta newyorkese che avvenne solo nel 1998. Non così esuberante come altri batteristi all’Art Blackey né tantomeno raffinato come lo fu Paul Motian, Chambers ha comunque partecipato al successo del post-bebop forse come pochi altri prima e dopo di lui. Autore e band leader di almeno una decina e più di album egli si prodiga in questo Samba de Maracatu sia come batterista che come vibrafonista, coadiuvato dal piano di Brad Merritt, dal basso di Steve Haines, e dalle voci di Stephanie Jordan e Mc Parrain.
Il titolo di questo suo ultimo lavoro non deve trarre in inganno. Il samba di cui si parla è quasi totalmente assente – tranne che nella traccia omonima – a meno che questo appellativo non si riferisca indirettamente alla freschezza ed alla gioiosità di far musica, a scapito della sua età, 79 primavere. Questo è un disco che definirei colmo di felicità personale. Si percepisce la continuità musicale di chi ha fatto storia all’interno del jazz e nel contempo si coglie una serenità di base che è difficile riscontare nei lavori di altri artisti suoi contemporanei. Tra standard, composizioni proprie e altrui, Chambers imbastisce un disco molto godibile, niente affatto retrò come si potrebbe evincere dalla tipica copertina del disco in pieno stile Van Gelder-Blue Note anni ’60.
Si comincia con uno standard come You and the night and the music, tratto da una vecchia commedia musicale degli anni ’30, brano inciso da moltissimi artisti che qui trova nel brillante pianismo di Merritt e nel solido contrabbasso di Haines una propria sua ragion d’essere, probabilmente il più vicino possibile al post bebop con tanto di breve assolo di batteria, giusto come ai vecchi tempi… Si prosegue con Circles, accreditato a Chambers medesimo ma le cui note iniziali paiono riprendere l’intro dell’omonimo brano del rapper Post Malone. Tutto si ferma comunque lì e l’impressione di un inciampo casuale sembra confermarsi con lo sviluppo della musica in pieno, esuberante clima improvvisativo, dove è il vibrafono a condurre i giochi dalle prime battute fino al termine. Arriviamo alla title track, Samba de Maracatu, e qui, effettivamente, la ritmica s’insaporisce di spezie latine ed è ancora il vibrafono a far parlare di sé, in accoppiata col pianoforte. Visions è frutto della penna di Bobby Hutcherson ed è un pezzo più lento, aereo, decisamente più intimo e meditato. Questa volta il pianoforte regna sovrano e si dilata in scale che mi hanno ricordato certe escursioni all’Herbie Hancock nei suoi momenti meno fusion. Never let me go che segue subito dopo è un altro famoso standard tratto dalla colonna sonora di un film noir del 1956, Lettera scarlatta, diretto da Michael Curtiz che i più ricorderanno come il regista di Casablanca. Qui la voce vellutata della Jordan si offre a una tonalità scura, tracciando il profilo di una rotonda, materica forma musicale di buon impatto emotivo. La traccia seguente, Sabah el Nur, che significa “buon mattino” in arabo, è stata composta dal chitarrista Karl Ratzer. Chambers ne accentua il carattere un po’ misterioso, con un accompagnamento di contrabbasso e batteria adattissimo al soundtrack di un film poliziesco, dove vibrafono e piano si intrecciano in uno stretto dialogo che costituisce l’ossatura armonica dell’intero brano. Dalla produzione di Horace Silver ecco arrivare Ecaroh con una lunga introduzione di vibrafono che ci fa comprendere l’arte eclettica di Chambers. Il brano prosegue con un bell’assolo di Merritt, dopo aver cavalcato l’entrata robusta della ritmica con cui riprenderà i contatti nell’ultima parte dello sviluppo, allacciandosi al vibrafono nella ripetizione di questo bel tema silveriano. New York state of mind rain si avvale della scansione ritmico-verbale del rapper Mc Parrain nella creazione della traccia meno significativa dell’album. Troppe parole per una musica come quella di Chambers che non ne avrebbe appunto bisogno. Si conclude con Rio, farina del profondo sacco di Wayne Shorter. È il brano più complesso, più moderno, forse il meno scorrevole tra tutti gli altri, caratterizzato da un asciutto astrattismo in cui apprezziamo la tecnica di Chambers al vibrafono. Questo strumento è la vera sorpresa dell’album, per il suo ruolo quasi centralizzato all’interno dell’economia dell’intero lavoro. In conclusione un’annotazione di carattere generale: i Grandi Vecchi del jazz, come dimostrano le ultime incisioni di Archie Shepp, Pharoah Sanders (a breve online) e ora Joe Chambers, sono ben attivi e presenti e soprattutto ancora pieni di buone cose da raccontare, per chi abbia tuttora voglia di ascoltarli senza pregiudizi.
Tracklist:
01. You and the Night and the Music
02. Circles
03. Samba de Maracatu
04. Visions
05. Never Let Me Go
06. Sabah el Nur
07. Ecaroh
08. New York State of Mind Rain
09. Rio
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