R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
La storia della musica moderna ritrova un collaudato canovaccio nel rapporto tra due gruppi canadesi quali i Bell Orchestre e gli Arcade Fire. Pur in ambiti musicali fondamentalmente diversi vi sono musicisti in comune tra i due ensemble che si adattano a ruoli differenti. Sarah Neufeld, violinista e cantante e Richard Reed Parry, bassista, sono infatti due elementi presenti ora in un gruppo ora nell’altro a secondo delle circostanze. Ma se l’attitudine degli Arcade Fire è prevalentemente orientata al rock la personalità dei Bell Orchestre è sostanzialmente qualcosa di alieno. Il mondo di questi ultimi è un melange di folk, elettronica e jazz dove diventa difficile tracciare un confine definito tra i generi. Del resto anche l’insieme degli strumenti suonati dai B.O ci aiuta ad avere un’impressione eclettica di questa band. Oltre al violino e al basso già citati c’è Pietro Amato al corno francese e in più alle tastiere e agli effetti elettronici, Michel Feuerstack alla steel guitar e anch’egli alle tastiere, Kaveh Nabatian alla tromba e alla gongoma – strumento lamellofono d’origine africana, una specie di carillon più duttile – ed infine Stefan Schneider alla batteria.

La genesi di questo House music – il titolo non sia fuorviante: di musica house propriamente detta ve n’è proprio pochina – si è costruita in modo quantomeno curioso. Tutti gli elementi del gruppo si sono ritrovati assieme nella tenuta di campagna della Neufeld, nel Vermont, si sono suddivisi i locali in modo che ognuno potesse, per qualche giorno sperimentare e raccogliere le idee per conto proprio. In un secondo tempo i musicisti si sono confrontati per improvvisare e il risultato di tutto ciò è stato direttamente registrato e secondariamente inciso su disco. Non è certo una novità memorizzare le proprie improvvisazioni tali e quali su nastro. Diversi gruppi rock e jazz l’hanno fatto in tempi passati e lo fanno a volte tutt’ora ma presumo che vi sia sempre un certo brivido in questo tipo di realizzazione. Si va senza rete, sfidando il caso e qualche volta accettandone la presenza come fattore positivo, come forza misteriosa che conduce a qualche inaspettato, straniante imprevisto. La tecnica più sicura per realizzare tutto ciò è creare una musica di assetto modale, cioè suonata su un’unica scala, con il minimo utilizzo di accordi di dominante per evitare le modulazioni tonali. Se i musicisti sono sufficientemente preparati e fantasiosi l’effetto conclusivo risulta fascinosamente ipnotico. Questo House Music è in realtà il terzo, vero lavoro dei Bell Orchestre, dato che escluderei dalla lista il demo d’esordio del 2002 e un remix del 2009. Si presenta come una suite in dieci movimenti che scivolano gli uni sugli altri in assoluta continuità, offrendo all’intero lavoro una dimensione unitaria che ne certifica, in un certo modo, la spontaneità improvvisativa, senza ripensamenti né soste di riallineamento. Timone sempre a dritta, quindi, e vele gonfie al vento dell’ispirazione. Dopo qualche secondo di un intro elettronico si passa al primo, vero movimento (House) strutturato su una base reiterata di gongoma e sopra una nuvola delicata di piatti, tra i quali steel guitar e tastiere elettroniche intonano climi sognanti ed eterei, con il violino che s’innesta in una ritmica monocorde. Si trascorre quindi in Dark steel e un ritmo quasi country appare tra tastiere, tromba ed elettroniche, riesumando in parte quasi l’ombra dei Wall of Vodoo quarant’anni dopo. Ecco quindi What you’re thinking. Si tratta di una poderosa base ritmica in cui il violino intreccia una melodia quasi sovrastata dai suoni di fondo, un po’di musica house che ci riallaccia al titolo del disco ma con una piega insolitamente più cupa e malinconica. Si resta quindi lontani dalle discoteche ma vicini ai reconditi pensieri della band che paiono manifestarsi verso il finale con interventi vocali rappresi in sospiri di sottofondo. Movement, e allora note basse a creare una curiosa base latina, cori e tromba, Herb Alpert piovuto dal cielo come in una colonna sonora di un film brillante degli anni ’60. Credo sia il brano più inaspettatamente arioso di tutto il disco. Arriviamo a All the time, l’atmosfera si fa più rarefatta con il violino pizzicato e il gongoma, in più il ritmo ossessivo dei piatti con un basso house, tamburi ed effetti elettronici all’orizzonte. In Colour fields sale l’amfetamina: la batteria spiana la strada, il solito violino si getta in avanscoperta mentre le tastiere elettroniche creano una melodia di stampo quasi orchestrale e finalmente riusciamo ad ascoltare il corno francese in tutto il suo splendore. Entriamo nel clima di Making time, leggermente più ossessivo e a me son venuti in mente i Kraftwerk in un’improbabile session con Don Cherry ma quello di Brown Rice, per intenderci. Si giunge al penultimo movimento, Nature that’s it that’s all ed è come essere in mare aperto o in un viaggio interstellare. Tutto si muove lentamente, l’elettronica ci tiene lontano dalla gravità (o dalla terraferma), qualche percussione fa il suo ingresso dietro le quinte e sì, sarò fissato, ma qui ci sento davvero i tedeschi degli anni ’70 con tutti i loro suoni cosmici e le loro tastiere spaziali. Finale etereo, quindi, rallentato e meditativo. Vero è che ci siamo trovati all’interno di un’architettura immaginifica dentro cui si sono toccati vari estremi ritmici e armonici. Molto buono l’amalgama, molte idee accattivanti ed altre un po’ riciclate come d’altronde è normale che sia nella musica moderna. Resta però, alla fine, una certa sensazione d’incompletezza. Questa lunga cavalcata sonora non è esente da una vaga percezione di invariabilità tale per cui, quando il disco finisce, non si sente l’impellente bisogno di un immediato secondo ascolto. Insomma, manca il rinforzo psicologico per l’ascoltatore, l’esca piacevole che ci avvicini alla musica con il desiderio di ripetere l’esperienza ancora ed ancora…
Tracklist:
01. Opening
02. House
03. Dark Steel
04. What You’re Thinking
05. Movement
06. All The Time
07. Colour Fields
08. Making Time
09. Nature That’s It That’s All
10. Closing
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