R E C E N S I O N E
Articolo di Luca Franceschini
Il Disordine delle Cose li ricordo soprattutto per un concerto in apertura ai Perturbazione, al Castello Sforzesco di Milano nell’estate del 2010, nell’ambito del Milano Film Festival. La band di Rivoli era appena uscita con Del nostro tempo rubato e i suoi chitarristi, Gigi Giancursi e Cristiano Lo Mele, avevano prodotto l’esordio di questi loro corregionali, che era uscito l’autunno precedente con diverse ospitate da parte di nomi importanti del circuito indipendente, dagli stessi Perturbazione a Paolo Benvegnù, passando per Carmelo Pipitone, Syria, Marco Notari e diversi altri.
Sono poi arrivati altri due album: La giostra (2012), registrato in Islanda nello studio dei Sigur Rós, e Nel posto giusto, per cui sono invece volati a Glasgow, in quello stesso CaVa Sound che ha visto la nascita di alcuni dei più bei dischi di Mogwai, Belle and Sebastian e Mercury Rev.
Questa dimensione internazionale, accompagnata da un songwriting di prima classe, non è servita a spalancare ai piemontesi le porte di una carriera di successo. Sono sempre rimasti alla stregua di un segreto ben custodito, giusto per usare un’espressione fin troppo abusata, e il cambio di passo che l’Indie italiano ha intrapreso dal 2015 in avanti, li ha fatti uscire definitivamente dai radar.

Lo scorso anno Marco Manzella ha esordito come solista (ne avevamo parlato qui) e oggi torna coi suoi compagni d’avventura con il quarto disco in studio della loro carriera.
Questa volta si rimane in Italia: lo hanno scritto nell’inverno del 2019 e lo hanno registrato la primavera scorsa tra Novara, Milano e Aosta, quando l’Italia affrontava il primo lockdown e pochi mesi prima che il sottoscritto, recensendo “Le mie cose”, li desse prematuramente per morti.
Proprio adesso che ci stavamo divertendo, con la sua copertina inquietante, con quell’uomo vestito da peluche ripreso di spalle a guardare il mare da un pontile, sembra parlarci di quello che abbiamo perso molto di più di quello che i testi, intrisi di quotidianità in salsa agrodolce, vorrebbero farci credere.
L’impressione è che, ritornando in pista dopo sette anni, il gruppo abbia scelto un ideale collegamento con le origini: eliminate quasi del tutto le suggestioni anglosassoni e le contaminazioni sonore, queste nuove canzoni riprendono in gran parte la formula dell’esordio ma la fanno virare ancora di più verso il cantautorato, sia nella declinazione più classica degli anni Settanta, sia in quella più aggiornata della seconda metà dei Novanta e dei primi Duemila. La conseguenza è che siamo dalle parti di quello che la scena italiana produceva agli inizi del nuovo millennio, prima che arrivasse l’esibizione del disagio esistenziale Lo Fi e dello scazzo apparentemente noncurante di Calcutta e i suoi epigoni.
La presenza di un nome storico come Roberto Bob Costa (bassista, tra gli altri, di Lucio Dalla), avvalora l’ipotesi di una sorta di ritorno alle origini, di un gruppo che non è interessato a quel che sta succedendo attorno a sé ma si preoccupa di suonare quello che più ama.
Ed è un gran bel disco, quello che hanno realizzato. A partire da suoni e arrangiamenti raffinatissimi, cesellati alla perfezione, e a un lavoro di scrittura che non ha perso l’ispirazione solita, queste dieci canzoni si muovono in una dimensione prevalentemente acustica, nel sottile equilibrio tra le chitarre (Marco Manzella ed Emanuele Sarri), il piano e il Synth (Luke Schiuma) e gli archi (Mattia Boschi al violoncello, Sylvie Blanc e Flavia Simonetti al violino), punteggiati saltuariamente da qualche inserto di fiati.
È un disco dagli umori prevalentemente malinconici, quasi grigio ma che si apre in maniera magnifica con Sul ramo di un ciliegio, ideale incontro tra il Pop anglosassone e la tradizione popolare, con quel ritornello che esplode allegro accompagnato dai fiati, quella frase “Scoprirai che la vita si vive anche solo con la verità” che dice che in un modo o nell’altro è sempre possibile ricominciare.
L’elemento rock è sparito quasi del tutto: via le chitarre distorte o i brani con uno spettro sonoro troppo carico, sopravvive al massimo qualche episodio più ritmato. Crisi di governo, con un bel violino nel ritornello e i fiati a sostenere le ritmiche, Qualcosa di strano, con una tastiera in primo piano e un utilizzo dei cori che la rende particolarmente catchy e Potremmo andare via, che è forse quella più immediata del lotto.
Per il resto, è il trionfo delle ballate, con una scrittura che raggiunge vette notevoli e confeziona alcuni dei momenti migliori della storia di questa band. Prendiamo ad esempio Hai scelto me, arpeggiata e struggente, una canzone sulla fine di una storia come fatto inevitabile, gli archi che entrano in un secondo momento a stemperare la cupezza iniziale, il finale con un sottofondo di rumore campionato e il violino che viaggia libero. O anche Le nostre bugie, incastro bellissimo tra il Synth e la chitarra acustica, un’intro molto ottantiana e reminiscenze di Dalla per tutto il pezzo, diversi cambi di ritmo tra le varie parti, che la rendono una di quelle musicalmente più interessanti. Ed è notevole anche Buona sorte, che si avvale di soluzioni scontate ma con un prodotto finale talmente efficace che è impossibile lamentarsi. In particolare, è interessante come nella strofa e nel ritornello si sviluppino due atmosfere molto differenti.
Anche l’ultimo brano, emblematicamente intitolato Un finale inaspettato, gioca con disinvoltura la carta più scontata, con gli archi che accompagnano ed elevano una melodia molto struggente.
Un ritorno convincente e gradito, con l’unico rimpianto che forse è arrivato fuori tempo massimo. Per come sta andando oggi la musica in Italia, non c’è più spazio di reale e condivisa attenzione, per dischi come questo. Finirà che saranno contenti i vecchi fan e chi, in generale, rimpiange quella fase in cui le produzioni indipendenti erano molto diverse da quelle odierne. Da parte mia, non ho mai fatto nessun tipo di confronti, mi limito ad essere contento che questo disco sia uscito, anche se avrei voluto vederli raccogliere molto di più lungo la strada.
Tracklist
01. Sul ramo di un ciliegio
02. Crisi di governo
03. Portami in giro
04. Hai scelto me
05. Qualcosa di strano
06. Le nostre bugie
07. Buona sorte
08. Ma va a finire che
09. Potremmo andare via
10. Un finale inaspettato
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