R E C E N S I O N E
Articolo di Sabrina Tolve
Il 16 dicembre 2019, Iosonouncane annuncia il suo nuovo album Ira.
Prima che la pandemia si abbattesse sul mondo, prima che un’altra visione delle cose potesse effettivamente entrare a far parte della nostra quotidianità, l’idea era un’esecuzione integrale nei teatri per la presentazione dell’album.
Come tutti sappiamo, questo non è accaduto – eppure mi sento di sottolineare quanto un’idea simile potesse avere assolutamente senso.
Ascoltando l’album, infatti, ci si rende conto di quanto quest’opera sia monumentale. Non credo ci siano altre parole per descriverlo.
Ira è un viaggio trascendentale. È una creatura intrinsecamente violenta, che urla contro l’ordine costituito e lo status quo. È un percorso d’analisi e di cammino, fatto di fierezza e alterigia e che ha in sé frammenti di bellezza e calma in un marasma d’emozioni senza freni inibitori.
È un’opera rabbiosa, fatta di collera e provocazione sensoriale, attraverso cui ci si ritrova in contatto, in un certo senso, con il proprio io e con la natura umana esposta in tutte le sue sfaccettature: Ira è il racconto del movimento evolutivo, del senso del sacro, della comunicazione. È una narrazione intrisa di simbolismo, fatta di neologismi e idioglossia, in cui il lavoro di ricerca sonora e l’unione di ogni filamento della trama musicale è a dir poco colossale: è un’opera opulenta, fatta di uno studio minuzioso che traspare con naturalezza già dalle prime note.

Il linguaggio stesso diventa musica: con essa si fa polisemico, divenendo un arabesco poetico capace di disegnare immagini che sono poste al di fuori del tempo e dello spazio, e attraversando, se vogliamo, l’ideale consueto del contesto. Quest’utilizzo della lingua, già espresso per esempio in Finnegans Wake di James Joyce, in Jabberwocky di Lewis Carroll o in The Waste Land di T.S. Elliot, dona già un valore diverso all’opera di Iosonouncane che si fa dunque non solo musicale, ma anche e definitivamente letteraria.
Non che con Die non ci fosse già riuscito.
L’album si snoda in due ore di musica, dividendosi in 17 brani: a me è sembrato una sinfonia divisa in quattro movimenti, per essere più chiara.
Il primo movimento abbraccia la prima parte dell’opera e include i brani che vanno da Hiver a Nuit; il secondo va da Prison a Soldiers; il terzo, da Fleuve ad Hajar; il quarto è composto invece solo da Cri che ne è l’epilogo.
Hiver apre l’album sottolineando l’intreccio di ogni elemento musicale che va a formare l’opera: dopo le prime note si è già altrove. Le voci si fanno elemento portante, divenendo la testa di questo leviatano contorto e avvolto su sé stesso: ogni canzone sembra un capitolo indipendente, per quanto sia connessa ad ogni altra tramite una sorta di malìa espressiva che le congiunge l’una all’altra. L’album appare da subito strettamente allacciato anche a Die, le cui ambientazioni sembrano venir fuori dai primi momenti di Ashes. Il secondo brano, dopo il primo elemento introduttivo, inizia di fatto il percorso che attraverserà l’intero album: trame buie e cupe si inanellano l’una all’altra; si alternano momenti potenti, evocativi, trascendentali e di pura furia, a momenti di pause profonde, di contraddizione, di pura osservazione. Il primo movimento si chiude con Nuit che segna un punto di pura bellezza meditativa.
Prison si sgancia febbrilmente dal pezzo precedente: inizia rammentando una sorta di rassegnata ciclicità salvo poi slabbrarsi verso urla di collera e dolore che solo Horizon riesce a molcere: e ancora una volta, il paesaggio sonoro di Die sembra fare capolino, tanto che Piel richiama la carne, e Prière rimanda ai cori della mandria e al loro fascino primordiale. Anche questo movimento si conclude con un momento di pausa, quella di Soldiers. La delicatezza del brano non nasconde una certa profonda analisi interiore.
Il terzo e penultimo movimento inizia con Fleuve, lo stesso riverrun di Joyce, o il fluidofiume come tradotto da Schenoni. Questa sequenza è principalmente incentrata sui liquidi: l’acqua del fiume, il sangue, il petrolio, con l’ultimo che sembra voler soffocare con pesantezza i primi due. Siamo di fronte ad un completo serpeggiare, un avvolgersi in sé come il leviatano prima citato, che in quest’ultima più complessa fase, prende maggiormente forma e s’arresta sul massiccio Hajar.
I primi tre brani si fanno via via più densi, come se le note volessero di fatto descrivere anche la densità dei liquidi che vengono profilati, e ritrarne i colori: Petrole è infatti la più cupa e la più greve delle tre, la più plumbea. Hajar ne arresta la narrazione con violenza e fermezza, in undici minuti di fuga trascinante, attraverso ritmi tribali e rimembranze di esorcismi musicali.
Si arriva dunque a Cri che è la chiusa dell’opera e ne è lo snodo: dal mondo, dalla totalità, da questa immensa complessità, si torna all’uno, all’individuo, al nucleo che ha però, in sé, l’universo intero. E nella comprensione di questa nuova forma, si ritorna o si nasce, avanzando o immergendosi nel buio.
In questo senso, Ira è un’opera politica: si libera da tutto quel che si conosce e si dà per scontato, sia esso il linguaggio, lo strumento musicale in quanto tale, il modello di canzone. Ira non ha una lettura univoca, né lineare. Si orienta oltre la sterilità e la banalità, e abbraccia ed accoglie il mondo intero ma solo per mostrarne visioni diverse e meno conosciute, attraversandone non solo le bellezze ma anche la brutalità e l’abbrutimento che ne consegue.
Sono trascorsi più di sei anni, dall’uscita di Die.
Mi sento di dire che l’attesa sia stata altamente ripagata.
Tracklist
01. Hiver
02. Ashes
03. Foule
04. Ojos
05. Jabal
06. Nuit
07. Prison
08. Horizon
09. Priel
10. Prière
11. Niran
12. Soldiers
13. Fleuvre
14. Sangre
15. Pétrole
16. Hajar
17. Cri
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