I N T E R V I S T A


Articolo di Arianna Mancini

Departure Tapes è la seconda opera solista di Giancarlo Erra, polistrumentista, produttore, artista visivo e fondatore della band capitolina Nosound. I “Nastri” si snodano in un percorso onirico, sei brani strumentali intessuti di una disarmante intensità tale da solcare l’anima, anche quella più vitrea, e confermano la duttilità di Erra nell’esplorazione, sondando i sentieri del suono.
L’album riflette un periodo oscuro e complicato dell’artista che ora vive nel Norfolk. Un viaggio iniziatico e di riconciliazione attraverso i suoi spostamenti fra il Regno Unito e l’Italia, dopo aver appreso della malattia terminale del padre, con cui aveva perso la quotidianità ed i rapporti da quando era un adolescente. La malattia è stata un nuovo punto d’incontro e di riavvicinamento per entrambi, quasi ormai sconosciuti l’uno all’altro; per portare bagliori di luce sulle macerie del passato. Abbiamo avuto l’immenso piacere di incontrarlo virtualmente e di parlare con lui, ripercorrendo come in un insieme di scatti su pellicola, momenti di vita, di creazione e di progetti futuri.

Il 2 luglio è uscito il tuo secondo lavoro solista, Departure Tapes, a due anni di distanza da Ends I-VII. C’è un filo semantico che lega questi due lavori? Te lo chiedo perché, seppur dietro ad ogni fine si celi un nuovo inizio, una fine fa comunque pensare o è collegata ad una partenza. 
Sì…anche, non sono sicuro ci sia un filo da un punto di vista tematico, probabilmente perché sono due album completamente diversi dal mio personale punto di vista e dal periodo in cui sono stati scritti. Probabilmente sì, c’è un legame tra i due, come c’è un legame fra gli album che faccio in generale, che siano miei o quelli per la band. Il link è che sono due album legati a stati emotivi.

Fra l’altro la genesi che ha dato origine a Departure Tapes è un processo sofferto…
Sì…Ends non era nato da un particolare episodio, era semplicemente nato come primo album solista. È stato più un album scritto in cui volevo esprimere un certo tipo di musica. Departure Tapes, se vuoi, è un album più tematico, nato dalla malattia di mio padre quindi di conseguenza un album più specifico…è un album sentito.

È un album della riconciliazione, della catarsi, dello scioglimento dei nodi; un album simbolicamente importante per te…
Certamente. Spesso quando la gente sente la mia musica, dice sicuramente che non è una musica necessariamente allegra; però in verità, anche quando è una musica malinconica e sofferta cerco sempre di dare un messaggio di speranza, nel senso che, per quanto mi riguarda, la musica ha quella missione lì. Questo è il motivo per cui scrivo musica. Inevitabilmente inizia in una maniera malinconica ma finisce sempre con una nota di positività. La musica per me ricopre anche quel ruolo, è il sistema che uso per rielaborare e quando la scrivo per questo motivo, un album come Departure Tapes finisce per essere una sorta di scioglimento dei vari nodi che deve però necessariamente passare attraverso delle fasi un po’ difficili ma che devono essere attraversate, bisogna passarci… Il motivo per cui lo faccio con la musica, probabilmente, è perché rende più facile passarci dentro, se vuoi.

Ci potresti guidare attraverso le sei sinfonie strumentali che compongono l’album e scattarci un’istantanea su ciò che si cela dietro al titolo? In ogni traccia ricorre la parola tape, eccetto che nell’ultima: A Blues for My Father.
Secondo me più che per singole tracce è un album che funziona per sides, proprio come è stato concepito su vinile, per cui ci sono le prime quattro tracce e poi ci sono le ultime due che sono Departure Tape e A Blues for My Father. La prima parte, casualmente per qualche motivo è quella di elaborazione, anche quella un po’ più musicalmente sperimentale, a tratti, secondo me. Invece la seconda facciata comincia con Departure Tape, che è la traccia più lunga ed è il rito di passaggio, se vuoi, fra quello che c’è stato nella prima facciata e A Blues for My Father. Quanto al titolo, Departure Tapes, il “tape” ha un significato duale in un certo senso. Il primo è un pochino tecnico, più legato al modo in cui scrivevo la musica, perché questa musica è stata scritta principalmente muovendomi in giro per cui, di conseguenza, è stata scritta sul mio synth portatile che funziona come una sorta di registratore. C’è un registratore digitale dentro che è un’emulazione di un nastro, per cui molto limitato, con quattro tracce ed è uno dei motivi per cui scrivo un sacco di musica su quello strumento quando sono in giro, ma essendo limitato mi forza abbastanza a non indugiare su venti tracce, devo veramente pensare a cosa voglio registrare…e di fatto tutte queste composizioni sono dei tapes, perché erano dei tapes. Alla fine poi il termine mi piace anche perché quando io ero più piccolo c’erano le cassette, quindi il ricordo dei mixtapes. Parlando poi di mio padre è un ricordo che si lega a quando si andava fuori la domenica e bisognava selezionare quali cassette portare via in macchina. 

Con il walkman… per registrarle si doveva contare i minuti esatti per far stare tutto nel lato A e nel lato B…(risata Ndr)   
Sì…esatto, anche addirittura per il walkman…assolutamente, per cui c’è anche questo ricordo. Poi il discorso della “departure”…chiaramente. Il disco è una sorta di “departure” per quello che è successo, però poi mi piace anche come idea di una collezione di cassette o di tapes collezionati per un viaggio. Alla fine di tutto, come sempre succede, queste erano tutte idee, non era stato deciso niente fin quando poi camminando in un bosco vicino a dove abito con la mia ragazza, abbiamo visto questa discarica di auto anni ‘50, un posto abbastanza particolare…a quel punto poi…c’era una macchina e tutti i punti si sono collegati, è nata la copertina, il titolo ed era tutto fatto. L’ultimo brano non si chiama tape perché è l’unico che ho composto qui in studio ed era il brano che volevo fare come chiusura dell’album. Sapevo che l’album aveva bisogno di una closure, ma una closure doveva essere necessariamente come si suol dire, “a bocce ferme” (risata. Ndr), di conseguenza è stata fatta qui, ed è un brano che non è un tape. Poi mi piaceva l’idea del blues, ovviamente quel brano è tutto tranne che un blues, però ha lo stesso sapore del blues, motivo per cui mi piaceva… nel senso che è un po’ malinconico ma anche, se vuoi, suiting come atmosfera, è un blues malinconico ma non triste, malinconico di guarigione e alla fine mi piaceva per quello intitolarlo così.

Le composizioni dell’album sono tutte tue creature e so che non è artisticamente corretto fare delle distinzioni, ma ce n’è una che senti più vicina al cuore?
È difficile… musicalmente quella che a me piace di più perché è un po’ più sperimentale, e rispecchia alcune cose che non ho fatto spesso, è 169th Tape, quella è una delle mie preferite perché ha qualcosa che mi è sempre piaciuto molto. Poi probabilmente la traccia di chiusura A Blues For My Father, semplicemente perché di solito nei miei album la traccia di chiusura è sempre quella a cui sono particolarmente legato, a prescindere da che traccia sia. Mi piace sempre chiudere l’album con quella che è la mia traccia preferita…credo che ancora oggi probabilmente sia quella.

Tu oltre che essere polistrumentista e produttore sei anche un artista visivo. Le tue opere sono lavori a 360 gradi e metti tanta cura in questo. Ti occupi dell’artwork, delle foto, dei video e del packaging. Nel processo creativo di Departure Tapes come hai conciliato la connessione fra musica e parte visiva? Sono nate insieme o prima hanno preso forma i suoni e poi le immagini?
Diciamo che per me la parte visuale è sempre quella più facile…credo, perché sono molto visuale di mio. Con la musica ho sempre delle immagini in mente, mi viene proprio naturale così, di conseguenza, quando devo fare dei video per le mie musiche o devo decidere delle copertine, ho quasi sempre un’idea in mente di quello che voglio andare a cercare…a volte è un’idea specifica, altre è semplicemente un feeling, quindi andando in giro, accumulando foto, ce n’è una che per qualche motivo mi dà quel tipo di feeling che avevo in mente. Per Departure Tapes è stato abbastanza naturale tutto sommato, ancora non avevo una precisa idea, sapevo che volevo qualcosa con dei toni caldi e che doveva essere in qualche maniera decadente. Non sapevo bene come, però doveva essere una cosa di questo genere, un qualcosa che comunicasse il senso di tempo, decadente nel senso del tempo che passa…e quando stavamo camminando e abbiamo scoperto qui nella foresta di Hevingham questo posto, sapevo che quella era la copertina. Appena l’ho vista…abbiamo preso la macchina fotografica e abbiamo fatto la foto della copertina, non ci ho dovuto pensare sopra, è stato semplicemente perfetto per quello che avevo in mente. Molto spesso si tratta di un’idea e di andare in giro con gli occhi aperti e cercare di essere sempre abbastanza pronto a percepire poi quello che c’è intorno. Per i video la stessa cosa, una volta che sapevo che quella era la copertina avevo già in mente sia il video di Departure Tapes che quello di A Blues For My Father, quindi spesso andavo a camminare in quel posto ed era lì che volevo girare i video. L’unica cosa che non avevo in mente erano le immagini dell’infanzia di mio padre, che poi quelle del video di A Blues for My Father sono di fatto autentiche immagini della famiglia di mio padre. In tutti quei fotogrammi c’è mio padre da piccolo, quando aveva probabilmente otto, nove anni. Quella è stata un’idea ultima, ho scritto ad una persona di famiglia che sapevo, sin da quando ero piccolo, essere appassionata di video. Gli ho scritto dicendo: “io son sicuro che tu hai dei video vecchi della famiglia di mio padre, me li puoi mandare?”. Di fatto, avevo ragione, lui ce li aveva, me li ha mandati e di conseguenza quel video lì è nato come un mix anche con queste immagini.

Parlando di vecchi video dei Nosound anche in quello di Kites ci sono immagini di repertorio di famiglia… credo?
Sì…sì, sul video di Kites ci sono immagini mie, di quando ero piccolo, sono identico a mio padre. Quelle sì, sono state un parallelo. Un sacco di anni fa quando andai con mio fratello a casa di mio padre, ci fece vedere queste immagini di quando eravamo piccoli. Mi è subito venuto in mente che stavo facendo Kites, le immagini si riferivano ad un episodio della mia infanzia…per cui mi sono messo semplicemente lì con il telefono, forse una macchina fotografica a filmare la televisione di mio padre dove c’erano quelle immagini che si poi si vedono in Kites. Comunque sì c’è quel collegamento, assolutamente.

Tornando indietro nel tempo, quand’è che hai capito e deciso che la tua strada sarebbe stata quella di fare musica? Qual è il primo passo che ti ha portato qui dove sei ora?
È difficile dirlo, che poi quando si è bambini non necessariamente si capisce. Io so solo che, come si vede anche nel video di Kites, quando scartavo una chitarra…io quell’episodio non lo ricordo ma mia madre dopo me lo raccontò, mi disse che mi piaceva sempre cantare, adoravo stare davanti alla telecamera a cantare o che mi piaceva la mia chitarra giocattolo. Ricordo solo che mi piaceva la tastiera di mio padre, quello me lo ricordo, ed ero molto piccolo ma sono sempre stato attratto dall’idea di fare ciò che sentivo nella musica che suonava in casa. La prima volta che l’ho deciso, se non ricordo male, ero in qualche vacanza, ero abbastanza piccolino, forse avevo già undici…dodici anni, già mi cominciavano a piacere le cose un po’ più rock tipo Pink Floyd e mi ricordo che una sera c’era una band che suonava al ristorante, c’era un chitarrista che stava facendo una sorta di assolo, ancora me lo ricordo… aveva una chitarra blu. Mi era piaciuto talmente tanto quell’assolo e quello che stava facendo, e ho deciso che quello era ciò che dovevo fare. Da lì in poi, uno diventa teenager, fa le band con gli amici, cover band. Per il discorso cover band non ne sono mai stato un grande fan, ne abbiamo fatte due o tre. Poi quando tornavo a casa registravo me stesso sulle musicassette sopra la musica di altri, per cui mi è sempre interessato fare, improvvisare musica, e poi sai…un passo dopo l’altro. Non è che decidi, o meglio, lo decidi ma non è detto necessariamente che ci riesci. Poi a diciotto, vent’anni, ho sempre fatto un sacco di lavori durante il giorno e poi la sera e la notte stare lì a far musica, registrare, finanziare tutta la musica finché non siamo arrivati qua alla Kscope. Chiaramente era tutto autofinanziato, autoprodotto, è costato un sacco di soldi, un sacco di tempo…tutta la promozione. Il contatto con Kscope, è stato un riconoscimento, e mi sono detto: “quello che faccio dovrei farlo ancora di più perché c’è gente che lo compra, perché c’è gente che pensa che vada finanziato”. Da lì, dieci anni dopo sono stato chiamato a venire in Inghilterra e adesso sono già tredici anni che sto qui. Boh…chissà cosa succederà fra altri dieci anni…

Da Sol29, il tuo primo album con i Nosound del 2005, c’è stata una notevole metamorfosi e cambio di registro. Che tipo di rapporto hai con quel repertorio?
Ho il tipo di rapporto che ho con tutto il mio repertorio, nel senso che tipicamente non lo riascolto. Essendo produttore sono abbastanza perfezionista, per cui so che se riascolto le cose che faccio, comincio e continuo a vedere un sacco di cose che dovrei fare differentemente, che avrei dovuto cambiare; per cui una volta che il disco esce ci ho lavorato talmente tanto che non ho voglia di risentirlo, preferisco risuonarlo ma non risentirlo. Non riascolto mai la mia musica onestamente…a prescindere. Però sono abbastanza amante delle cose che escono e rimangono intatte così com’erano. Oggi come oggi non credo che potrei rifare un disco come Sol29, probabilmente non è una cosa bella perché è un disco che adoro, però oggi non riuscirei a rifarlo perché ci sono delle cose che oggi non farei. Però allo stesso momento penso che sia un bel lavoro di cui sono molto orgoglioso, motivo per cui non ho mai cambiato le cose che ho fatto. Credo che i dischi una volta che escono appartengono poi a chi li ascolta, io il mio lavoro l’ho fatto, sono contento che continuino a vivere. I dischi continuano a vivere finché c’è gente che li ascolta.

Sì, perché siete voi che ci fate vivere. Ne sono stata sempre convinta, è l’artista che nutre…
Mah…è una cosa reciproca, come dico sempre io. L’artista da solo è abbastanza inutile come l’ascoltatore da solo, non è un discorso di numeri. La magia è la combinazione che avviene, se vuoi, quando un artista fa un qualcosa che arriva a qualcun altro, anche se è una sola persona…forse due, non importa, non è un discorso di numeri. Ogni volta che un artista fa qualcosa che arriva ad almeno una persona, allora si è chiuso il cerchio. Secondo me, chi fa e chi ascolta, sono due elementi che non possono prescindere l’uno dall’altro.

Il 5 settembre sarai con i Nosound al Veruno ProgRock Festival, come ti senti in previsione di questo ritorno alla vita live?
Ovviamente sono abbastanza curioso di vedere quanto saremo arrugginiti quando cominceremo a fare un po’ di prove, però sono molto contento…sono due anni che non ci vediamo e che non suoniamo insieme. Avevamo concluso con una nota abbastanza alta prima del lockdown, con concerti belli con gli Anathema, avevo fatto alcuni concerti solisti per Starmus poi è arrivata la pandemia e ci siamo fermati tutti. Per cui non vedo l’ora, forse più che per la musica, per rivedere il resto della band. Sul palco ci divertiamo perché siamo molto amici fra di noi, di conseguenza è l’aspetto umano probabilmente quasi quanto quello musicale che non vedo l’ora di riprovare. Poi è un bel festival quello, sicuramente sarà una buona organizzazione perché hanno un bel palco, un bel suono. Sarà una bella esperienza secondo me. Poi è gratuito e all’aperto.

C’è nell’aria la lavorazione di un nuovo disco dei Nosound e l’uscita di un remix di Warm Winter, il tuo lavoro uscito nel 2011 con il nome Memories Of Machines, frutto della tua collaborazione con Tim Bowness. Puoi darci qualche anteprima o gossip a riguardo? (…Risata Ndr)
Fino ad ora sono stato abbastanza occupato con il discorso solista che ancora non è finito, devo ancora finire un po’ il progetto con Tim però quello li è quasi fatto, devo solo terminare i master surround; ma questi giorni che fa così caldo preferisco sempre riposarmi un pochino perché dentro allo studio con tutti gli amplificatori accesi non si respira. Il disco con Tim sarà sicuramente la prima cosa, non è solo remixato è anche riarrangiato. Ho proprio preso i brani originali come li avevamo fatti solo io e Tim, prima che Steven Wilson producesse e mixasse il lavoro. Quindi siamo tornati abbastanza alle origini con il lavoro e sono molto contento perché suona bene, suona sempre di più come ce l’avevo io in mente; perché poi il produttore originale ero io. Sono molto contento che questa cosa esca fuori, secondo me ci saranno diversi piccoli dettagli che non emergevano nella versione originale, che forse è un po’ più rock e invece in questa qui secondo me emergeranno. Quindi quella sarà la prima cosa. Per i Nosound ho già scritto un sacco di materiale, ci sono alcuni pezzi che mi piacciono moltissimo, devo solo finire il progetto con Tim per poi avere campo libero con loro. Chiaramente nel mentre produco altre cose, però se sono progetti miei faccio fatica a gestirne due nello stesso momento, se entrambi richiedono creatività mia personale. Quindi preferisco sempre chiuderne uno, sapere che sta uscendo, poi ho il campo libero. Per il discorso Nosound sarà fatto entro la fine dell’anno. Però ho un sacco di materiale scritto, ci sono alcuni demo già registrati. È un progetto che è già in uno stato avanzato, devo solamente finire altre cose per poi dedicarmi quasi esclusivamente a quello. Non so che album sarà onestamente. Sarà come Departure Tapes, non musicalmente parlando ma come approccio. Un album pieno di cose che mi piacciono, senza alcun tipo di filtro, non è un album che vuol essere rock o non rock, non è un album che vuol essere elettronico, non elettronico; è un album semplicemente con diversi pezzi che mi piacciono. Credo che tanta gente ci sentirà varie cose del passato che ha trovato in altri dischi e probabilmente anche delle cose mie soliste.

Bene…allora buone vibes per tutto questo lavoro che hai nel tuo prossimo futuro.
Sì…grazie, non manca mai quello…

Nota a piè pagina di un’idealista.
Prendersi del tempo e abbandonarsi all’ascolto di Departure Tapes è un immenso dono per l’anima.


Foto © Caroline Traitler