R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non so come si debba sentire un giovane musicista che già all’età di 16 anni è stato definito “prodigioso” dalla critica musicale del suo Paese, la Polonia. E che attualmente, compiute trentacinque primavere, venga valutato come uno tra i migliori violinisti al mondo, capace di muoversi tra composizioni jazz e classiche con la medesima elegante sicurezza. Presumo che tutta l’attenzione ad oggi ricevuta in carriera e la ferma determinazione caratteriale abbiano contribuito a condurre Adam Bałdych al suo decimo disco da solista – Poetry – il settimo per la ACT di Siegried Loch. Con un percorso per certi versi analogo a quello di altri musicisti che vengono dal jazz – mi vengono in mente le ultime esperienze discografiche di un pianista come Omar Sosa, ad esempio – il violinista polacco, giunto ad un punto cruciale della sua evoluzione musicale, si è accorto di come la disciplina tecnica, così fondamentale per la sua formazione, gli sia diventata stretta e insufficiente nel raccontare i suoi momenti più intimi, ad esempio l’attuale felicità di giovane padre, avendo appunto dedicato questo suo ultimo album alla moglie Karina e al figlio Teodor. Cercare nuovi spazi di silenzio tra le note, dilatare la sintassi sonora, rallentare l’impeto esecutivo diventano quasi dei dogmi in Poetry, che regala un’impressione di tranquilla, estatica omogeneità d’intenzione. Più che la sensazione di una raccolta di diversi brani abbiamo invece l’impressione di una lunga, suadente suite che si distenda dalla prima nota fin quasi all’ultima sequenza sonora, laddove appaiono invece, come vedremo, alcune imprevedibili e stimolanti differenze. La tensione comunicativa, strutturata con fraseggi relativamente semplici e condotti in piena sobrietà, tende a raggiungere un pubblico più ampio rispetto a quella dimensione di nicchia elitaria che caratterizza attualmente il jazz europeo.

La linea musicale di questo disco si mantiene in un ambito rigorosamente melodico e lirico, di forte stampo classico con diverse ispirazioni che provengono dalla musica popolare dell’Est con qualche influsso medio-orientale. Non c’è nulla da spartire, ad esempio, rispetto alla contemporanea visione statunitense del jazz che si muove in ambito totalmente differente con aspetti molto più urbani e incalzanti. La registrazione dell’album, avvenuta in Polonia in uno studio piuttosto isolato in mezzo alle montagne, deve aver influenzato l’emotività di questa musica, tinteggiandola con sfumate colorazioni autunnali su un fondale ben avvertibile di certa malinconia crepuscolare. L’intero lavoro si fa guidare dal sentimento, con poche sperimentazioni, quasi nessun tentativo di esplorare un mondo nuovo ma la netta percezione di una costante ispirazione di carattere romantico, una serenità di base vicina al bisogno di riflessione intima dell’autore e naturalmente della band che lo supporta.
Il gruppo che accompagna Baldych lavora con lui da qualche anno ed é composto da Marek Kornarski al sax tenore, Krzysztof Dys al pianoforte, Michael Baranski al contrabbasso e Dawid Fortuna alla batteria. Compare però in cinque brani anche la ben nota tromba di Paolo Fresu ad allargare ulteriormente la completezza armonica dell’insieme.

Heart beats inizia l’album con un delicato pizzicato di violino che sembra ricalcare nella sua cantabile e ritmica semplicità un’antica melodia infantile. Il piano riprende tutto questo diventando un vero e proprio bordone che lascia libero lo stesso violino di cantare la sua parte, accompagnato inizialmente da qualche percussione discreta e qualche soffio di sax. Il crescendo del brano s’allarga fino a comprendere la tromba nel finale, concludendosi con un’impronta moderatamente più drammatica. I remember esordisce anch’esso con un analogo pizzicato ma l’atmosfera è meno spensierata e il piano si sovrappone con qualche nota scandita nell’ambito delle ottave più basse. Entra la batteria, la musica acquista un’impronta più ritmata, il contrabbasso ne sottolinea il battito e il violino insegue le sue melodie concedendosi qualche veloce scala nel composito insieme musicale. La struttura di questo brano si orienta verso un’aria new age ma sarà l’unico frangente più “leggerino” nel percorso globale di questo disco. Si finisce tra i soffi in lontananza di Fresu e forse tra quelli di un flauto (?) suonato da Kornarski. Stars si propone con un piano molto mittel-europeo a cui segue una ritmica ben in evidenza con una bella puntualizzazione in assolo del contrabbasso. A seguire, compare un secondo spunto solitario questa volta di piano, condotto a metà tra velleità jazzistiche e ricordi classici. Baldych tiene le fila del discorso proponendo la struttura melodica di base, dalle forti connotazioni balcaniche prima e concedendosi una breve digressione poi, verso il finale. Teodor è il brano dedicato al figlio e qui il violino forse è accordato sul modello “rinascimentale” come usa spesso fare Baldych, cioè al di sotto della usuale tensione delle corde. Dopo un inizio di pizzicato e qualche nota acutissima presumo sovra incisa, il tono dell’arco diventa molto caldo e carezzevole, una sorta di ninna-nanna premurosa dentro cui gli altri strumenti si distribuiscono con discrezione, consapevoli del profilo intimo in cui è stato concepito il brano. La tromba di Fresu ricalca a tratti il violino mantenendosi in sincrono fino al momento in cui parte il lungo, elaborato ma sempre sentimentale assolo di Baldych, riproponendosi poi il precedente unisono proprio sul finale. Conclude ancora il pizzicato, questa volta doppiato dal piano e irrobustito dalle note del contrabbasso.

Poetry concede più spazio alla tromba, sempre notevolmente morbida, che inizia a dialogare col violino. Sullo sfondo un ennesimo, ostinato punzecchiar di corde probabilmente anch’esso sovra inciso. Questo brano offre uno scambio continuo di opinioni melodiche improvvisate tra Fresu e Baldych ma tutto si svolge in modo controllato, senza impennate, in uno spleen avvolgente e introverso. Hyperballad è un slow in piena sintonia autunnale con un clima di penombre e riflessioni cariche di un emotivo romanticismo a cui pone però un opportuno freno l’accompagnamento cadenzato della ritmica. Questa volta si ripropone un altro discorso a due ma condotto da sax e violino. Il tema melodico, cantabile e molto memorizzabile, viene reiterato forse un po’ troppo risultando alla lunga un po’ stucchevole. Si cambia approccio con Wish che rammenta più da vicino un tema popolare, quasi una danza contadina. La musica si fa più rarefatta con un ottimo accompagnamento di piano e batteria. Emergono i piatti tra le possibilità percussive di Fortuna, il sax doppia il perenne pizzicato del violino all’inizio e nel finale. Ci si addentra quindi tra le dinamiche del jazz col violino che si concede qualche libertà improvvisativa in più. Psalmody ha uno svolgimento dall’aura gravosa che si sviluppa su tempi interi in cui il tema viene raddoppiato da violino e sax. Ed è proprio quest’ultimo a dare una scossa alla musica costruendo scale al limite della tonalità d’impianto, aggiungendo note molto scure ed altre più brillanti e trascinando con sé anche il violino, finalmente liberato dai  troppo insistenti pizzicati. Insomma, un po’ di vitalità in più non guasta di certo. La batteria si slega anch’essa nelle battute finali, coinvolta dal corto-circuito emozionale di questo brano che si rivela quindi più anomalo rispetto agli altri.

Con Birds si annuncia un violino suonato come un mandolino, senza archetto. L’effetto è sorprendente e l’ensemble sembra cambiare faccia mostrando un orientamento più fantasioso, inaspettato, con influssi musicali più accentuati di provenienza medio-orientale. Anche se la costruzione melodica è meno sognante tuttavia la freschezza di questa composizione colpisce per le sue insolite variazioni strutturali. Peccato che tutto duri relativamente poco e sembri, alla fine, quasi un bozzetto a cui sia stato dato volutamente minor risalto, un esercizio di stile che avrebbe potuto avere più respiro di quanto effettivamente non abbia avuto. Grace è ancor meno di un abbozzo ma possiede una linea melodica assai interessante che purtroppo resta appena  accennata. Si chiude in bellezza con Open sky che sembra quasi la coda di Grace. Appare quanto meno inusuale – e ciò va a ragione e non a discapito – terminare il disco con un brano come questo, decisamente più frizzante e più cool di tutto l’album. Lo strumento di Fresu ci ricorda cos’è il jazz lavorando sempre su una base melodica ma meno prevedibile, più ritmata e frizzante. Un soffio d’energia proprio in coda, verrebbe da dire, tentando soluzioni un po’ più coraggiose. L’album, si è capito, vive intensamente di una carica d’affettività perfettamente in linea con la progettualità globale che come si è detto, lavora molto in ambito melodico-romantico. L’insieme non è affatto flemmatico né didascalico. Racchiude, nella sua integrità, una serie di momenti intimi e rasserenanti, frutto evidentemente dell’intenzione più incline al raccoglimento interiore di Baldych, al cui suggerimento partecipano costruttivamente gli altri elementi del suo gruppo.

Tracklist:
01. Heart Beats
02. I Remember
03. Stars
04. Teodor
05. Poetry
06. Hyperballad
07. Wish
08. Psalmody
09. Birds
10. Grace
11. Open Sky