I N T E R V I S T A


Articolo di Arianna Mancini immagini sonore di Andrea Furlan

Quello che si dice essere un percorso di esplorazione. Dal vinile che non riesci a togliere dal piatto alla prima data del tour. Nel mezzo però, c’è ancora spazio per un angolo di meraviglia, per andare a fondo, per esplorare gli abissi. In questa fenditura da sondare, Andrea Chimenti ci ha aperto le porte della sua disponibilità e lo abbiamo incontrato, il 26 novembre al Circolo Arci Bellezza di Milano, prima del suo concerto, per entrare un po’ più nei dettagli del suo ultimo lavoro e del suo mondo. Buon viaggio!  

Buonasera Andrea, inizio accogliendoti con un duplice ringraziamento, per il tuo tempo prezioso e per averci regalato quest’opera immensa che non ha confini. In questo momento sto invocando il dono della sintesi, perché il tuo poliedrico percorso artistico ti ha portato ad esplorare molteplici discipline e le tue collaborazioni sono così fitte e variegate che per poterti fare un’intervista esaustiva, si dovrebbe farla uscire a tomi come la Treccani. Cercherò quindi di focalizzarmi, ma con una persona del tuo calibro, non è un’impresa semplice.

Buonasera Arianna [ndr…sorride], sono io che ringrazio te, perché le tue parole sono belle, anche troppo.

La tua “beatissima” opera è uscita il 5 di novembre e oggi è un giorno molto importante per te, questa sera è la prima data del tour. Come ti senti?

Mi sento molto emozionato e come sempre, questo è un mio classico, non all’altezza di salire su un palco. È una cosa che mi perseguita da quasi quarant’anni. Per me il palcoscenico è sempre stato un elemento molto difficile. Amo la musica in tutto, amo il momento della creazione di un brano, della sua registrazione, del concepimento di un’opera, adoro quel momento. Poi c’è un altro momento, quello del live, che è forse uno dei più importanti; e se vuoi, quello lo temo. È una questione di carattere, di insicurezza, ma è uno di quegli scogli che la vita ti mette di fronte per crescere. Si può dire che ogni concerto che faccio è una piccola crescita, una piccola montagna superata.

Questa sera presenterai il concerto con una formazione a tre. Sarai con Cristiano Roversi, che ha collaborato all’arrangiamento e produzione del disco e con cui hai anche portato in giro fino a qualche mese fa lo spettacolo “Notturno”, e con Francesco Cappiotti. Com’è nata l’idea di salpare per il tour con loro?

È una formazione che mi sembra abbastanza completa. È vero, manca la batteria, mancano degli elementi importanti… manca il sassofono di David Jackson, e questo non è poco; però credo che in tre riusciamo comunque a creare il clima necessario per questo concerto. Visti anche i tempi difficili che stiamo vivendo, abbiamo pensato di partire in tre e poi eventualmente di provare a crescere e creare una formazione più numerosa e completa. Al momento però, il trio rimane la scelta migliore. Innanzitutto, perché ci aiuta dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista artistico pensiamo di riuscire comunque ad ottenere quella che è l’atmosfera del disco. In questo mondo il musicista deve anche fare i conti con il punto di vista finanziario, deve cercare di riuscire a portare qualcosa a casa… da sgranocchiare. [ndr… sorride]

…Lo posso immaginare, a maggior ragione per te, che ti sei sempre tenuto fuori dalle tendenze in voga e che hai vissuto l’arte come missione, con coerenza e devozione.

Sì, è vero. Alla fine, poi, non mi sento neanche eroico in questo senso, perché ho scelto le uniche strade che conosco e che mi sento di percorrere. Io sono capace di fare questo, se mai mi chiedessi di fare un pezzo sanremese, tanto per dire, non ne sarei capace… e quindi, che cosa devo fare? Faccio questo.

Quanto alle collaborazioni dell’album, hai scelto un progetto artistico di altissima caratura, da personaggi di fama internazionale a coloro che amo definire appartenenti alla “sacra nicchia” italiana. Parlaci di questi tuoi compagni di viaggio. Peraltro, il viaggio è pure uno dei leitmotiv della tua opera… preferisco definirla così. La tua creazione non è un semplice disco, è un’opera. Dipinge proprio l’universo interiore ed esteriore umano. È metafora ma è anche realtà… hai incluso tutto.

Grazie. Hai toccato il punto. Sì, il titolo stesso viaggia su due piani. Uno è la metafora e l’altro è la realtà più cruda. Forse, questo mio disco è anche un po’ il riassunto del mio percorso, ed era necessario che potessero comparire al suo interno dei musicisti con cui ho avuto a che fare nel passato, addirittura negli anni Ottanta, come Francesco Magnelli o Fabio Galavotti, che è stato il bassista dei Moda. Devo dire che questo ritrovarsi mi ha scaldato il cuore: avere queste persone da cui sono stato lontano per tanto tempo; e anche Antonio Aiazzi, con il quale ho condiviso sia la cantina (io con i Moda e lui con i Litfiba) sia il concerto di Gianni Maroccolo, Nulla è Andato Perso. È stato lì che ci siamo rincontrati ed è venuto spontaneo provare a scrivere un paio di canzoni insieme, che sono finite poi nel disco. Una bella reunion di personaggi che sono diventati un po’ una chiave di volta di tutto il lavoro. Tengo molto a tutti loro, come anche allo stesso David Jackson, che non mi appartiene come figura di musicista con cui ho collaborato nel mio passato, ma mi appartiene in quanto ascoltatore; negli anni Settanta i Van der Graaf Generator era uno dei gruppi più importanti del mondo progressive che ascoltavamo noi giovani. Non a caso nel disco alla fine c’è una vena prog, un po’ anche a causa di Cristiano Roversi. [ndr sorride]

Effettivamente questo album è uno scrigno di completezza, ci sono notturni jazz folgoranti, divagazioni prog, momenti meditativi, bagliori tragici con l’ingresso degli archi…

È vero, sì. Mi piace che un disco sia una sorta di caleidoscopio, che alla fine tanti colori e forme differenti confluiscano in un unico corpo. Non amo molto i dischi troppo lineari, dove dal primo pezzo all’ultimo si viaggia in una stessa atmosfera. Poi sarà che dentro di me ho varie tensioni, amo tanti generi e alla fine queste confluiscono nello stesso disco.

La folgorazione parte dal titolo, Il Deserto La Notte Il Mare, è un titolo cinematografico… mi fa pensare ad un film di Bergman, o Tarkovsky un po’ anche a Fellini. Loro avrebbero potuto concepire un titolo del genere.

Non ci avevo pensato, però si… è così, ha un titolo cinematografico.

Fra l’altro tu sei partito dalle arti visive prima di dedicarti alla musica.

Esatto, facevo cartoni animati.

Come è nato il titolo?

Il deserto, la notte, il mare sono tre parole tratte da un pezzo che si chiama Bimbo, da lì le ho estrapolate e mi sono reso conto che potevano rappresentare sia un po’ tutte le canzoni, che il concetto del tempo che stiamo vivendo. Il Deserto La Notte Il Mare: tre elementi che ci ricordano un po’ il deserto culturale del nostro occidente, la notte dei tempi che l’umanità sta vivendo, e questo mare che ci separa sempre da un approdo possibile. Poi c’è anche l’aspetto più materiale, dei popoli che sono costretti ad attraversare questo deserto, ed il mare.

Nella genesi compositiva dell’opera come si dipana il processo creativo ed il rapporto fra liriche e musica?

Solitamente il suono mi suscita delle parole, però non c’è una regola, a volte scrivo dei testi che poi metto in musica, come Felice. In altri brani invece, come Milioni, è nata prima la musica. Nessuna regola, dunque. Io non sono un buon artigiano della musica, perché non sono mai riuscito a capire qual è il meccanismo per scrivere una canzone.

O forse lo sei proprio per questo…

Mah… io ti ringrazio, ma vedi, ogni canzone in effetti per me è un’apparizione, mi viene questa canzone ed io sono il primo che se ne stupisce. È il momento che amo di più della musica. Come ti dicevo prima: la scrittura, proprio perché in essa vivo questo stupore di poter tirare fuori una canzone. Poi magari brutta, e la scarto. O semplicemente che non piacerà, ma non importa. È un momento magico dove delle parole insieme a delle note cominciano a mescolarsi, e nasce appunto una canzone.

…Del resto, lo stupore per voi artisti è il fuoco fondamentale, perché è la stessa capacità che conserva nel cuore un bambino. È ciò che coglie la realtà, i bagliori, le epifanie. Ciò che gli adulti non vedono, perché seguono altre strade.

Vedi… hai colto il punto. Se io ho un pregio, e qui mi vanto un po’, forse l’unico che ho, è quello di essere capace di stupirmi ancora. Mi stupisco tantissimo di un sacco di cose. Ci sono delle emozioni molto forti che mi suscitano le stagioni, la sera, il mattino, le foglie, gli odori… quelli che ti riportano a vicende del passato, a sensazioni già vissute. Tutto è uno stupore, mi è difficile abituarmi a questa vita, forse per questo ho scritto In Eterno. Vorrei non finisse mai, perché non mi stanca, anche nelle sue profonde difficoltà è meraviglioso esistere. Questo stesso fatto mi stupisce: perché esisto? Sono domande infantili, quelle che ci si fa da ragazzi. La risposta non gliel’ho data, ma non per questo smetto di farmela. Mi stupisce, ogni volta, il fatto di esistere e continuo sempre a stupirmi. È uno stupore costante.

Altro dettaglio da non tralasciare è lo splendido artwork che hai scelto. La copertina di un disco ha il potere di chiamare, e quella del tuo album è un particolare della serie “Il Nodo” di Nicola Vinci. Qual è stata la liaison che ti ha condotto a questa immagine?

Nicola Vinci aveva già fatto la copertina del mio precedente album, che è Yuri, tratta da una sua opera. Quando dovevo fare la copertina di questo disco, per me è stato un dilemma. Non sapevo quale immagine scegliere, addirittura ne avevo trovato una di una scimmia che ricorda il ritorno dell’uomo scimmia in KY: il primo piano di uno scimpanzé che usciva dal buio. Poi però mi sembrava di denigrare la scimmia, perché lì è in un’accezione negativa. Ed è così che sono andato sul sito di Nicola Vinci; lì ci sono sempre delle belle immagini e sono stato catturato da questa foto, da quell’atmosfera di quell’auto, che per me è un mattino presto… per me è un’alba, con quest’auto in un clima invernale parcheggiata davanti al mare. Caspita! Mi sono detto: qui ci sono tutte le canzoni del disco. Qui c’è tutto, c’è il deserto, la notte, il mare. C’è quest’atmosfera grigia di questa umanità. Mi sono chiesto: “Cosa è successo in quella macchina? Chi c’è lì dentro? È da solo? Sono in due? O forse non c’è nessuno? Perché qualcuno ha lasciato la macchina lì e si è allontanato? Dove?” Per me era un fotogramma di un film. Allora ho chiamato Nicola Vinci e gli ho chiesto: – “Ho visto un particolare di una tua opera, Il Nodo, me la cederesti?” – “Ma è una foto che ho fatto con il cellulare, ma va bene”. E così me l’ha data, e a me piace un sacco, è stato gentilissimo.

Come dicevi prima, tu hai sempre scelto la strada più difficile, quella meno canonica. La stessa linea è stata applicata anche nella scelta di non diffondere il disco sulle piattaforme digitali. Qui mi sorge una domanda: come si sente il poeta Andrea Chimenti in una “società liquida”, popolata per la maggior parte da squali voraci, che fagocitano senza capirne il senso?

Guarda… mi fai ricordare un mio vecchio disco dei Moda, degli anni Ottanta, che si chiamava Canto Pagano. Già da allora c’era tutta una serie di riferimenti. All’interno di questo disco c’erano due personaggi, che erano il protagonista e l’antagonista. Quest’ultimo era il Vecchio Re dei Porci, ed era poi rappresentato dall’America, intesa come consumismo più totale, ed il protagonista era l’Uomo dei Sogni, che era l’uomo idealista, l’uomo che poi in realtà in quel disco soccombeva, sotto la potenza del suo nemico. Io un sognatore un po’ mi ci sento sicuramente, uno che si scontra con una realtà con cui fa fatica a vivere. Vivere questa realtà in continua trasformazione, una trasformazione molto veloce e degradante. Mi riconosco sempre meno in questo panorama. Quindi, che dire, mi piace contornarmi delle persone con le quali riesco a trovare una simbiosi nel pensiero, che sono però sempre di meno. Ciò mi spinge a vivere abbastanza isolato. Non sono una persona che sta molto in mezzo alla gente e questo è un po’ un mio limite, una mia incapacità, se vuoi. Tanto che a volte mi chiedo, pur vero che mi sto avviando io stesso all’anzianità: “ma un anziano oggi, come fa?”. Un anziano che veramente ha conosciuto un mondo molto differente, in certi momenti anche terribile, ma quella attuale è una trasformazione così forte, così bassa, così triste che mi chiedo come faccia a concepirla e a viverci in mezzo. Io di certo faccio fatica, sto facendo una grande fatica, e non sono il solo, perché sento tante altre persone che dicono la stessa cosa. Quindi mi ci rapporto male, ma ci navigo in mezzo, o per lo meno cerco di navigarci.

Alla tua carriera di musicista e scrittore si affianca quella di direttore artistico. Hai anche curato la regia di installazioni museali. Donaci lumi in merito, perché forse questo è un aspetto meno noto del tuo percorso artistico.

In effetti questo nessuno lo sa… Diciamo che a me piace spaziare, ed ho avuto la fortuna di poterlo fare nella musica, nella scrittura, nel teatro, nella sonorizzazione, e di curare la regia di certe installazioni. Tutte cose molto particolari e di nicchia, divagazioni che mi arricchiscono e mi portano linfa buona per la musica. Ho capito una cosa, quello che a me interessa è il mondo della creatività, che sia scrittura di un racconto oppure di una canzone, alla fine la soddisfazione per me è molto simile. Quindi, quando mi chiamano per fare una regia di un’installazione museale, in quel momento sono totalmente lì dentro, e ciò mi dà una soddisfazione forte. Allora mi dico: “potresti fare solo questo”, ma poi mi ricordo che alla fine la musica è il mio lato espressivo più forte. Sono tutti elementi, come quelli di un albero che ha tanti rami: c’è il fusto principale, che nel mio caso è la musica, con tanti altri rami che mi aiutano ad andare avanti, a portare linfa, novità, cose nuove dentro al panorama musicale. Mi lascio influenzare molto anche dalle esperienze esterne.

Chi è Andrea Chimenti oggi? Chi è quel ragazzo che è partito con i Moda dalla Cantina, che condividevate con i Litfiba, di Via Dei Bardi?

Non è molto diverso da allora. Dentro mi sento sempre questa grandissima forza, l’entusiasmo, la voglia di scrivere e di emozionarmi nelle cose che faccio. Questo per me è essenziale, mi fa assomigliare a quel ragazzo di tanti anni fa. Ci sono, in più, un’esperienza e una consapevolezza maggiore, e mi aiuta anche il poter lavorare in ambiti più “quadrati”; come quando devo sottostare ad una ditta, con Culturanuova, per queste installazioni. Nella canzone io sono libero, è lì che faccio me stesso. Là invece devo sottostare a tutta una serie di esigenze. Questa doppia dimensione mi aiuta tanto, perché a volte nel fare solo il lavoro dell’artista, perdi di vista la vita vera. Il lavoro ti impone una disciplina, devi essere lì ogni mattino, fare otto ore anche se non ne hai voglia. Io se non ho voglia di scrivere una canzone, non la scrivo. Lì, se non ne hai voglia, ci vai lo stesso e lo fai, perché hai delle scadenze, perché il museo inaugura il tal giorno, e questa cosa mi tiene con i piedi a terra e mi porta ad avere un atteggiamento molto più rigoroso anche nella musica. Questo perché deve esserci l’aspetto creativo, libero, poi però il tutto deve essere portato dentro ad un’applicazione, ad un impegno. A volte, gli artisti, e noi musicisti abbiamo questa immagine da maledetti, come se avessimo per grazia ricevuta qualcosa di disceso dal cielo. Non è così. Spesso è un lavoraccio. Per me è molto duro fare un concerto, prepararlo, fare tutta la produzione di un disco e organizzarlo. Quindi, tutti i lavori che ho fatto extra mi hanno aiutato a concepire anche la musica come un lavoro preciso.

Cosa consiglieresti oggi ad un ragazzo che decidesse di intraprendere la strada della musica? Fra l’altro anche tuo figlio Francesco ha scelto la musica, con i Sycamore Age.

Sono contento che Francesco faccia il musicista, perché è disposto a molto. Ad un giovane che sceglie la musica io chiedo: “Quanto sei disposto a dare della tua vita? Sappi che ciò ti richiederà tantissimo e spesso ti darà molto poco. Ci saranno momenti di grande deserto, salite. Io ho avuto momenti molto difficili, in cui ho stretto la cinghia dei pantaloni, nel senso letterale della parola. Allora, se sei disposto a fare questo percorso di salite, bene! Può essere la tua strada, ci puoi provare. E comunque non è detto. Se non sei disposto a questo, ma pensi di poter raggiungere presto il successo, allora non fa per te”. L’unica cosa che mi verrebbe da dire è questa.

Ringraziamo nuovamente Andrea per aver trovato tempo per noi, e a maggior ragione, in una serata per lui così piena di tensioni ed importante. È proprio vero che quando si viene a contatto con anime speciali, ci si ritrova sempre un po’ trasformati ed arricchiti interiormente. Ad ognuno il suo mondo. Io resto nella “sacra nicchia” dei poeti.

“Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler andare d’accordo con tutti. Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili e le rarità ai rari.” [Friedrich Nietzsche]