R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non potrei dire che la musica di Greg Spero & Co. sia completamente nuova perché in questo The Chicago Experiment, dove si ascolta un po’ di tutto, ogni cosa è stata masticata e ben digerita, dall’hip hop al soul, dal nu jazz al funky groove fino al free jazz che proprio a Chicago ha vissuto momenti gloriosi con l’Art Ensemble e l’AACM. Comunque sia, sarà l’impressione rilassata che questo album riesce a trasmettere o la mia personale convinzione ma questa musica potrebbe essere, in un certo senso, molto rappresentativa di questo secolo. The Chicago Experiment ha un fascino ammaliante, insinuante ed etereo che s’appropria dei nostri sensi pian piano senza un’apparente ragione strategica. Perché è certo che questo lavoro, una volta che proviamo a smontarlo, mostra delle singole parti che già conosciamo e che abbiamo ascoltato e metabolizzato da tempo. Però, una volta ricomposto l’intero, ci accorgiamo che la totalità ha un significato maggiore della somma dei frammenti ricomposti. L’interessante figura di Greg Spero, pianista di Chicago a cui è stato affidato il compito di organizzare questo Experiment, non è solo musicista compositore maanche proprietario a sua volta di una piccola etichetta musicale, la Tiny Room. Inoltre è un esperto di tecnologie digitali e di NFT (Token non fungibili), cioè strumenti assolutamente virtuali in grado però di certificare l’appartenenza e il copyright digitale di artisti che lavorano sul web. Occorre spendere due parole sulle motivazioni presenti alla base di questo album. La casa discografica americana Ropeadope – in realtà originata da un consorzio tra diverse etichette – ha ideato un progetto a largo raggio circa vent’anni fa con l’intento di dedicare una serie di “esperimenti” musicali a qualcuna delle città USA più rappresentative nell’ambito del jazz, assemblando e pianificando una serie di session e utilizzando musicisti che si muovono nell’area delle città designate. Così si è iniziato col Philadelphia Experiment nel 2001 con Christian McBride, Uri Caine e Pat Martino e si è proseguito nel 2003 con il Detroit Experiment che vedeva la partecipazione di Geri Allen, Amp Fiddler e Karriem Riggins. Nel 2007 Ropeadope fa uscire Harlem Experiment ma dopo di questo c’e stato un silenzio durato quattordici anni fino ad oggi.

La città di Chicago, da sempre al centro di una forte pulsione musicale soprattutto per quel che riguarda il blues, ha offerto per questo nuovo “esperimento” un’interessante contributo musicale nelle figure di alcuni ottimi musicisti della Windy City come il pianista Greg Spero, il batterista Makaya Mc Craven, il veterano Darryl Jones al basso, il vibrafonista Joel Ross – uno tra i miei musicisti preferiti di questi ultimi tempi – Marquis Hill alla tromba, Jeff Parker alla chitarra e Irvin Pierce al sax tenore. Il suono che si ottiene in questo album origina da alcune parti scritte da Spero, su cui è stato dato ampio spazio all’improvvisazione. La musica nasce quindi con un’anima grezza, come una pietra preziosa che deve essere ancora sfaccettata e su questa forma i musicisti che affiancano Spero sovrappongono elementi reiterati, melodie modali, basi ritmiche percussive ed elementi armonici insoliti ma più che altro consonanti. Il tutto sprigiona un’energia tranquilla, ben calibrata, che non affronta territori impervi. Musica che appoggia su basi stabili, quindi, che conserva un’implicita freschezza e offre una sensazione di trasparenza, dove non si registrano forti contrasti ma tutto procede in un “laid back” molto gradevole. Avanguardia? Il termine credo non abbia molto senso, almeno per questo album. Sarebbe meglio in questo caso utilizzare il termine “contemporaneo”, con tutte le dinamiche implicite che sono occorse, in passato, per arrivare a questo risultato. E in effetti “contemporaneo” significa attuale, presente nel Tempo che viviamo, riflettente il modo di vivere la musica qui ed ora.

The Chant apre l’album con un’ostinata riproposizione di un riff per tromba e sax, l’unica sequenza di note scritte in questo brano. Attorno a questo si snoda la parte ritmica, il piano in seconda fila e il vibrafono di Ross che organizzano il tessuto di sostegno insieme alla chitarra. Con l’improvvisazione la tromba scintillante di Hill volteggia nell’aria fino alla ripresa finale dello stesso modulo iniziale ripetitivo. Un classico brano di nemmeno quattro minuti e mezzo che potrebbe durare all’infinito senza stancare e fungere da ideale colonna sonora per descrivere la vita di una città dinamica dalle mille sfumature etniche. Sizzle Reel tiene fede al titolo e questa volta è il sax molto “mellow” di Pierce che improvvisa su una sequenza circolare di due accordi, re maggiore e re sus4, che si alternano su un vellutato tapis roulant di strumenti, senza mai sovrapporsi né togliendosi spazi l’un l’altro. C’è parsimonia di suoni, non in senso minimalista, ma in ottica quasi di un risparmio di risorse strumentali. Perché infatti usare troppe note quando con quelle essenziali si è in grado di descrivere una situazione al meglio delle possibilità? Always Be è sicuramente tra le tracce migliori, una ballata gonfia di nostalgia che s’insinua profondamente nell’animo, con un beat percussivo veramente essenziale e una spettacolare entrata di tromba e basso in un tema che si muove nello spazio orizzontale di una terza minore. Il pianoforte si distende con una coppia di accordi in sincope ritmica per poi sgretolarsi in un certo numero di riverberi ipnagogici qua e là. Gran finale con la tromba che si alza d’una ottava per concludere poi sottovoce su un letto di note pianistiche. In una parola: bellissimo! Cloud Jam si distende su un groove percussivo rinforzato da graffi di basso in leggera distorsione, con il carillon del vibrafono a rilucere di tremolanti bagliori sonori, mentre il piano si sviluppa in orizzontale e compare qualche dissonanza così… consonante da non essere quasi avvertita. Sax e tromba nel solito, semplice, avaro tema portante. Musica molto più mentale che fisica, tridimensionale e trasparente.

Still of Water sembra raccontare la superficie placida del lago Michigan. Gli sfregamenti delle note di basso, la chitarra liquida, quasi psichedelica, il duetto sax e tromba, i discretissimi interventi di piano e vibrafono si muovono tutti in ambito modale tra il I° e il IV° armonico. Un brano rilassante e rischiarante di ogni eventuale umor nero. Annoto che la sequenza dalla terza traccia a quest’ultima è quanto di più bello abbia ascoltato dall’inizio dell’anno in questo genere musicale. Double take suona quasi come un coro a bocca chiusa dove la tromba è un soffio appena percettibile ma il godimento sta nell’ascolto degli incroci tra vibrafono, piano e basso, quest’ultimo più in evidenza che non in altri brani. La batteria, qui come altrove, è impostata su ritmi semplici, quasi elementari ma assolutamente consoni all’economia del pezzo. Maxwell street ha una lunga preparazione molto funky dove sembra che non accada nulla di eclatante e invece il legame tra i musicisti si rafforza, il vibrafono si concede un breve assolo, la chitarra graffia ogni tanto e i fiati incalzano un tema ridondante e circolare. Probabilmente, come afferma lo stesso Spero, questo è il brano dove si riescono ad individuare maggiormente le impressioni dei gloriosi gruppi free di Chicago ma sono solo plissettature occasionali, schegge vaganti nella memoria del passato. Analoghe considerazioni possiamo tracciarle per il brano seguente, For Too, dove il tempo viene ignorato, così i legami tra armonia e sviluppi melodici prendono direzioni diverse. Eppure niente scuote la magnifica tranquillità di questo pezzo, dove le tentazioni free e le uscite fuori schema armonico non riescono a turbare il senso di pensosa riflessione che lo attraversa. Sicuramente in evidenza il rimando continuo tra la trama pianistica e la tromba di Hill. Rose Petal è un evidente, assonante richiamo alla musica di Herbie Hancock – e quale miglior chicagoiano esempio di pianismo si poteva prendere – con il piano elettrico e le tastiere che rimandano all’anima funky-elettrica di quello che è stato una delle maggiori influenze di crescita musicale e spirituale di Spero stesso. Tiny Beat è forse il brano meno riuscito dell’album, troppo breve per poter decollare. Straight Shooter conclude invece in bellezza in una salsa funky con un basso suonato in slap come Dio comanda. Chitarra e piano salgono sulla giostra inserendo patch di blues e di bebop conferendo al suono una pienezza come finora non si era ancora ascoltata.

The Chicago Experiment è dunque un signor disco e, insieme al lavoro di Kit Downes già recensito qui su Off Topic, è tra le cose migliori ascoltate in questo inizio dell’anno. Se il buon giorno si vede dal mattino mi aspetto grandi cose, musicalmente parlando, dal 2022.

Tracklist:
01. The Chant
02. Sizzle Reel
03. Always Be
04. Cloud Jam
05. Still Of Water
06. Double Take
07. Maxwell Street
08. For Too
09. Rose Petal
10. Tiny Beat
11. Straight Shooter