R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Durante l’ascolto di questo Fantàsia – con l’accento sulla seconda sillaba – mi son trovato a riflettere sulla natura decisamente sui generis di questo lavoro, rispetto alla media di proposte che ascolto solitamente. A partire dalla copertina, inabissata tra i colori blu e viola, con quella figurazione spiraliforme e la figura umana centrale che pare incamminarsi verso un luogo misterioso. Se il contrabbassista Jacopo Ferrazza voleva evocare una dimensione onirica o qualcosa di simile, bisogna proprio dire che ha centrato l’obiettivo, sia a partire dalla grafica che per quello che riguarda, in modo più pertinente, l’essenza della musica. I suoni e il canto paiono provenire da un universo parallelo, attraverso uno di quei cunicoli spazio-temporali di cui la Fisica – e non solo la fantascienza – ipotizza l’esistenza tra un “buco nero” ed un altro. La sensazione di fluttuazione che possiamo avvertire, come in una sorta di viaggio astrale al di fuori del nostro corpo ed ai limiti della coscienza, lo si deve anche alla difficoltà di riconoscere e definire la dimensione musicale, piuttosto eterogenea, in cui ci si trova. La struttura, nel suo complesso, è costituita da un jazz diluito nel pop-elettronico, a cavallo tra progressive e frammenti classici che si organizzano in un moderno Pierrot Lunaire tra Schoenberg e i Gong di David Allen. Come un colore che si diffonda in un liquido diluente, così la musica di Fantàsia scioglie i suoi confini storici e strutturali per diventare altro da sé, un’incursione nel lato più sognante della creatività, avvicinandosi al mondo enigmatico della Psiche, cioè al respiro dell’immaginazione. Ma ancora più in là, forse in un territorio vissuto prima di questo, toccando quel nervo segreto che ci avvicina al Mistero senza mai raggiungerlo. È intuibile che Fantàsia sia stata concepita come una suite, data l’omogeneità intenzionale che si sviluppa lungo tutto l’arco delle composizioni. La scelta della lingua inglese per i testi dei brani forse è stata preferita per la maggior scorrevolezza dei suoi fonemi all’interno di una struttura musicale complessa come questa.

Ferrazza è giunto, se non sbaglio, al quinto lavoro da titolare, tracciando un profilo esperienziale che si è formato attraverso collaborazioni con diversi musicisti italiani e stranieri, cito a memoria ad esempio Falzone, Fioravanti, Giuliani, Pieranunzi, Rava, Liebman. In questo ultima opera suonano con lui Enrico Zanisi – uno dei migliori pianisti in assoluto che abbiamo oggi in Italia – Valerio Vantaggio alla batteria – era presente anche in Rebirth dello stesso Ferrazza, uscito nel 2017 – Livia de Romanis al violoncello e la voce suggestiva di Alessandra Diodati. Ad aggiungersi a questa crew due ospiti d’eccezione come Marcello Allulli al sax soprano e Fabrizio Bosso alla tromba. In mezzo ai suoi collaboratori, Ferrazza si sistema quasi in secondo piano, farcendosi percepire poco più del necessario, come se volesse rendere maggiormente evidente l’aspetto compositivo e la costruzione degli arrangiamenti, rispetto al ruolo di esecutore, non avendo peraltro nulla da dover dimostrare a questo riguardo.

Fantàsia è il brano omonimo dell’album che apre quindi i giochi. Zanisi e il suo piano, con qualche posizionamento di dissonanze strategiche, introducono il canto magico della Diodati che possiede un personalissimo candore nonché una precisa intonazione non facile da mantenere tra tutte le modulazioni armoniche che si presentano. Sostengono la dolcezza della voce, il violoncello e qualche nota diradata del contrabbasso fino alla comparsa del coro in sottofondo, probabilmente ottenuto da un effetto di tastiera, che prepara ad un brusco cambiamento. Entra infatti la squillante tromba di Bosso, il brano s’ispessisce di sonorità elettroniche e dissonanze fino ad una zona di confine tra melodia classicheggiante, corali, momenti jazz quasi free ed istantanee velature di rock progressive alla Renaissance. Come suggerito dal titolo del brano seguente, The Explorers, bisogna diventare giustappunto esploratori e pionieri di questo nuovo, intrigante mondo sonoro proposto da Ferrazza & C. Contrabbasso e batteria s’impegnano in uno stringato contrappunto ritmico sul quale si adagia – è il caso di dirlo – il suadente violoncello della de Romanis, subito seguito da una serie di accordi, molti dei quali in rivolto, del piano di Zanisi. Una breve parentesi cameristica a deux tra questi ultimi strumenti, poi parte l’assolo di piano con un serrato accompagnamento ritmico di contrabbasso e batteria per farci respirare due minuti secchi di jazz trio come Dio comanda. Si attesta – se mai ce ne fosse stato bisogno ma a volte è meglio ribadire il concetto – la compiuta personalità del pianismo di Zanisi. Verso il finale del brano si assiste un po’ ad una fusione tra tutti gli elementi precedenti, tra i quali la presenza di certi echi rock anni ’70. River Theater ritrova la presenza della voce, assente nel brano antecedente. Una melodia che si snoda soavemente tra modulazioni diverse fino alla comparsa del contrabbasso che intraprende un assolo robusto e guizzante, uno dei pochi che riguarda Ferrazza. Compare poi un intermezzo pianistico che riprende in parte qualche successione di note del tema cantato. A metà brano torna la voce della Diodati ma il clima si modifica velocemente, assumendo un aspetto più ritmico, quasi a forma di ballata, con degli appropriati interventi di violoncello. La chiusura si gioca sull’intonazione acuta della voce e gli strumenti che si spendono in un voluminoso finale sonoro. Old Souls è subito arpeggio di piano con suoni elettronici di sottofondo e la tromba di Bosso, stavolta quasi seminascosta tra le quinte, che imposta la linea melodica da lì a poco seguita dalla voce. Il pezzo ha un abbrivio lento, un po’ macchinoso per poi librarsi in aria con la Diodati e con gli interventi della tromba elettronicamente effettata di Bosso. Un bel crescendo, a tratti impetuoso, che si affievolisce via via nel finale, concludendosi nel sospiro sognante della voce.

In Land of Time violoncello e il contrabbasso suonato con l’archetto si esprimono inizialmente insieme per poi restare in sottofondo quando entra il piano accennando una melodia un po’ umbratile, improntata ad una certa vaghezza crepuscolare. Da questo punto inizia il canto, lento e meditato, che si circonda progressivamente d’una corona di note cristalline di piano. Il tempo viene scandito secondariamente dalla batteria ed è la volta del synth ad elaborare un ulteriore cornice sonora. Insomma, il brano si presenta come una sequenza di cambiamenti di rotta, di arresti e ritorni che francamente lo elaborano forse un po’ troppo, togliendogli parte di quella leggerezza che teoricamente avrebbe potuto pienamente esprimere. Con La Course ci si allontana dal pianeta Terra. La voce fluttua senza gravità tra un tappeto di suoni ed effetti elettronici e la mia memoria mi ha suggerito un’affinità emotiva tra la Diodati ed Elizabeth Fraser, l’eterica cantante dei Cocteau Twins. Per buona parte del brano i controlli con la base vengono interrotti e ci si libra nello spazio sublunare. Sarà il pianoforte a ricollegaci con la realtà nel vortice sonoro e corale che chiude la traccia. Blue Glow ha un andamento pianistico che ricorda i compositori russi del novecento, con la voce che cerca uno spiraglio tra le note, vagando nell’aria mentre la musica si modella pian piano arricchendosi di tutti gli strumenti. Step by Step è costruita su difficoltosi intervalli melodici che tuttavia Diodati sembra affrontare con scioltezza Dopo un cominciamento cameristico tra archi e pianoforte il brano si orienta verso una rock ballad in raffinato stile kingcrimsoniano che ci riporta ai tempi delle prime uscite della band di Fripp. A tratti sembra di ascoltare l’intenzione vocale di Gregg Lake… Il piano, ancora una volta con il suo assolo fortemente jazzato, fa riprendere i contatti con la realtà, prima del finale che si riallaccia ai toni della ballata. The Tree of Life, nel titolo, nei suoni e nelle voci che si avvertono tra le righe, è un ricordo delle visioni del cinema di Malick, l’incantatore d’anime, verso quel clima a metà tra il sogno e fantasia, desiderio e sentimento che sono gli ingredienti classici del regista texano. Un po’ d’improvvisazione strumentale costituisce la coda di questo ultimo brano che sembra riassumere tutti i vari contenuti musicali fin qui esplicitati.

La musica di questo Fantàsia è quindi un intreccio affascinante spesso inatteso di varie componenti, a cavallo di collocazioni storiche diverse e in bilico tra differenti generi, anche apparentemente lontani tra loro. Una dimostrazione aggiuntiva del fatto che certe barriere sono più nella cultura e nel nostro modo di pensare, piuttosto che inerenti alla musica stessa.

Tracklist:
01. Fantàsia
02. The Explorers
03. River Theater
04. Old Souls
05. Land Of Time
06. La Course
07. Blue Glow
08. Step By Step
09. The Tree Of Life 

Foto © Federica Di Benedetto