R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il nome adottato da questa band, Satoyama, non è frutto di una scelta stravagante. Se Wikipedia ci azzecca, il termine si riferisce ad una sorta di gestione ecologica del territorio giapponese, tradizionalmente attuata dai contadini attraverso l’esperienza di secoli. Queste modalità di controllo delle campagne, fondate sul riutilizzo di materiali con metodi secondo logica e tradizione, sono servite a lungo per evitare gli sprechi e per risparmiare risorse ed energia, evitando di pesare sull’ecosistema naturale. Proprio il problema ecologico e il futuro della Terra sembrano essere ciò che sta a cuore dei Satoyama, da sempre impegnati attivamente sul fronte della lotta al degrado ambientale e climatico. I loro live concert servono per finanziare progetti ecosostenibili e la loro musica ruota da sempre – sono giunti al quarto disco – intorno alle tematiche di preservazione dell’habitat dentro cui dovremmo poter vivere, se non ci distruggeremo prima, anche in futuro. Attività encomiabili, anche se i propositi di energia pulita stanno per andare alla malora, trascinati da una guerra scriteriata che non fa altro che aggravare la polluzione e il riscaldamento globale. Comunque è di musica che parliamo ed è proprio l’operato artistico dei Satoyama che qui ci interessa maggiormente. La band piemontese è formata da Luca Benedetto (tromba e tastiere), Christian Russano alle chitarre, Marco Bellafiore al contrabbasso, Gabriele Luttino alla batteria e glockenspiel. Vi sono anche degli interventi elettronici ad opera più o meno di tutti i componenti. I Satoyama, prestando fede al loro dichiarato impegno, hanno dedicato Sinking Islands a nove siti sparsi quasi totalmente nel Pacifico a rischio di sparizione per effetto della risalita dei livelli marini dovuto all’innalzamento della temperatura planetaria.

Con una musica fortemente immaginifica, montata tra qualche bizzarria alla Pascal Comelade o alla Penguin Cafè Orchestra, navigando in mezzo a frammenti sonori che suggeriscono l’idea di soundtrack documentaristiche, i Satoyama danno la sensazione di andare volutamente alla deriva tra un paesaggio e l’altro, appuntando impressioni, riflessioni e cercando di raccontare coi suoni tutto quello che “vedono”. L’apparente discontinuità della musica, in realtà ben misurata e a tratti centellinata con attenzione, è un elemento che può lasciare inizialmente perplessi in quanto abbiamo pochi appigli a cui riferirci. Non siamo in ambito jazz, né tanto meno rock e nemmeno in orbite più legate a tradizioni folk. In realtà, a ben vedere, c’è un po’ di tutto quanto sopra detto ma nell’attuale scacchiera programmatica di questo gruppo tutto è spostato avanti – o di lato – di qualche casellina. La mia impressione è che ci si trovi di fronte ad una “colta” elaborazione di quella che una volta veniva chiamata “new age”. Qui siamo però ad un “duepuntozero”, senza le astrologiche stucchevolezze di qualche decennio addietro. Veniamo invece coinvolti tra deliziose melodie quasi felliniane, frammenti di un progressive lontano nel tempo, suoni elettronici sfilettati in quello che ci appare a volte come un accurato lavoro d’intarsio e in altre occasioni come un contesto incompiuto, quasi disadorno.

Primo brano dell’album è Nauru, un’isoletta smarrita in Oceania di soli 21 km quadrati. Il contrabbasso innesca un ¾ come in un valzer circense, con il glockenspiel e la chitarra e poi la tromba che appare con qualche suggestiva nota sfuggente. Il momento interessante è comunque il dialogo tra contrabbasso e chitarra, con la batteria che mantiene acceso il tempo. Una serie di effetti riverberati della chitarra innescano una seconda parte dove imperano le tastiere. Salgono alla memoria qua e là persino alcuni frammenti di progressive italiano dei ’70. Tuvalu è un arcipelago di piccole isolette, disseminate nel ventre acqueo dell’Oceano Pacifico. È la tromba di Benedetto che imposta la melodia, mentre la ritmica acquista via via più visibilità, la chitarra esce bene con un effetto sustain che dura pochi istanti. Cambio di atmosfera, il tempo si spezza e rallenta, la tromba si arricchisce di qualche effetto elettronico. Ulteriore cambiamento con l’avvento del synt, basso poderoso e assolo con molta elettronica addosso, tanto che all’ascolto mi è difficile percepire se lo strumento che si sente preponderante sia una chitarra o una tastiera. Brano stimolante, forse eccessivamente discontinuo. Venice è sicuramente la traccia più sorprendente e imprevedibile. Una semplice percussione accompagna una chitarra che vaga tra un silenzio e l’altro, cercando inizialmente note insolite per poi dondolarsi tra arpeggi rarefatti, mentre alcune immagini tremolanti sfilano davanti ai nostri occhi come in una visione onirica. Anche Kiribati è un arcipelago in Oceania, sistemato con le sue barriere coralline lungo la linea dell’equatore. Decisamente tra i brani migliori dell’album, inizia con un avvincente intreccio di glockenspiel e contrabbasso. Quest’ultimo strumento imposta inizialmente una bella, evocativa melodia di stampo europeo quasi classico con tanto di tastiere in sottofondo per poi trasformarsi – i cambi di identità sonora sono sempre numerosi in questo disco – in un ritmo dub contrappuntato da qualche pizzichio di chitarra. Bellafiore continua nel suo essenziale ma convincente lavoro sui bassi mentre attorno a lui si organizza un incalzante tappeto percussivo.

Maratua è un’isola che fa parte delle Derawan in Indonesia. Un paradiso per turisti che prima del loro arrivo in massa era probabilmente un paradiso e basta. Archetto e contrabbasso su cui si distende una tromba in stile Jon Hassell dall’incedere molto triste e dai molti echi. Il brano, in effetti, se lo giocano proprio questi due strumenti in solitudine, riuscendo a realizzare una prova convincente ricca di spazi e di silenzi. Suva è la capitale dell’arcipelago delle Figi, circa trecento isole raggruppate tra loro nel Sud del Pacifico. L’incedere iniziale di questa composizione è lenta e con quel suo andamento orecchiabile e clownescamente zoppicante può trarre in inganno l’ascoltatore. Si tratta invece di un brano con un’essenza tutt’altro che gioiosa, intrisa di una malinconia profonda appena mascherata da un sorriso grottesco. Il tema sembra avere quasi un’idea latina tra le righe nonostante le note gravi del contrabbasso e un’onda di synt in sottofondo. Palau, visto la territorialità fin qui espressa, penso si riferisca all’omonimo arcipelago della Micronesia nel Pacifico occidentale piuttosto che alla cittadina sarda vicino Sassari. Un’inquietudine appena alleggerita dal suono cristallino del glockenspiel si distende lungo lo svolgimento di questo pezzo che sembra un canto tradizionale accennato dalla tromba. È il contrabbasso a segnare i tempi giusti, con la chitarra che segue con il suo solito, discreto procedere. Verso metà il brano sale di dinamica, riempiendo gli spazi disponibili con tutti gli strumenti a creare un pieno vorticoso, quasi un girotondo. La chiusura, però, ritorna essenziale e rarefatta. Solomon è un gruppo di isole in Oceania passato alla Storia soprattutto per la cruenta campagna di guerra a Guadalcanal che si svolse tra l’agosto del ’42 e il febbraio del ’43 tra militari americani e giapponesi. Il brano omonimo è pieno di strane e suggestive sonorità “sottomarine” che appaiono e scompaiono tra battiti di timpani. La tromba intona un frammento melodico a mezza strada tra un inno ed una marcia funerea mentre vari rumori elettronici imperversano in lontananza. Si chiude con Niue, altra isola nel pacifico a rischio di essere sommersa. Il contrabbasso riempie la scena con le sue tonalità corpose su un bordone elettronico costituito da una breve frase reiterata di tastiera. Aumenta poi l’intensità effettistica che incombe sulla composizione con un senso sempre più drammatico. Quando sembra che tutto sia finito, dopo un intervallo di circa tre minuti di silenzio, quasi il tempo di una riflessione sul messaggio che Satoyama intende porgerci, ecco il vero finale del brano, con un bell’intervento di chitarra acustica in tonalità minore.

Non definirei questo album come ambizioso bensì teneramente onesto. Sincero, perché la musica qui proposta non è fatta per un consumo immediato, richiede infatti attenzione e possibilmente un ascolto ripetuto, avendo anche una voce d’impegno sociale in senso ambientalista non comune e priva di retorica. La tenerezza è un sentimento che aggiungo io, perché le lotte per la salute del pianeta sembrano tante battaglie contro i mulini a vento. Nonostante tutto, chapeau a chi ha ancora la forza di crederci.

Tracklist:
01. Nauru

02. Tuvalu
03. Venice
04. Kiribati
05. Maratua
06. Suva
07. Palau
08. Solomon
09. Niue