R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Una celebrazione od un’evocazione? Questo Symphonic Tone Poem For Brother Yusef, è una vertigine in assenza di gravità, una levitazione a mezz’aria di due potenti sciamani come Bennie Maupin e Adam Rudolph che hanno dedicato questo album alla memoria di Yusef Latef. Un lungo peregrinare tra suoni prevalentemente modali – tranne che nell’ultimo brano – artificialmente frazionati in cinque movimenti ma per la verità costituenti, nell’insieme, quasi una suite, è il partecipato tributo di due musicisti che hanno incrociato il loro destino con quello di Lateef. In realtà questo non è l’unico omaggio al fiatista di Chattanooga che io conosca, perché nel 2019 il sassofonista inglese Nat Birchall fece uscire con il suo quartetto The Storyteller- A Musical Tribute to Yusef Lateef. D’altra parte se lo stesso Lateef fosse vissuto fino ad oggi avrebbe compiuto cento anni, ma ha fatto comunque in tempo ad arrivare ai novantatre nel 2013, dopo aver navigato per i mari più trafficati e storicamente importanti del jazz dal dopoguerra ad oggi. Lateef cominciò a suonare e a comporre professionalmente nell’orchestra di Dizzy Gillespie nel 1949 e nella seconda metà dei ’50 iniziò la carriera solista, facendosi mentore di tutto quel sentore d’Oriente e più marcatamente afro-tradizionale che avrebbe imperversato di lì a poco e che coinvolse più o meno direttamente anche altri grandi musicisti come John Coltrane e Don Cherry. Fu poi tra i primi, tra i ’70 e i gli ’80, ad intuire ciò che lui chiamava “autofisiofisicità” della musica, in poche parole il ruolo dei suoni nella cura del benessere mentale e fisico, attitudine che poi s’inserirà, nel giro di qualche anno, nel filone modaiolo conosciuto come “new age”. È fondamentalmente il percussionista Adam Rudolph che ha avuto con Lateef i rapporti più intensi, avendo suonato con lui per circa vent’anni, in almeno quindici album pubblicati insieme. D’altra parte il sassofonista, clarinettista e flautista Maupin, oltre ad aver assorbito l’influenza di Lateef, ha alle spalle un curriculum importante. Partecipò alla pubblicazione di quattro dischi con Miles Davis – tra cui il mitico Bitches Brew – e altri album con Hernie Hancock e Mc Coy Tyner, limitandoci a citare solo i musicisti più conosciuti.

Le normali coordinate spazio-temporali si annullano nella sequenza dei cinque momenti dell’album, inglobate da un flusso liquido di effetti elettronici, loop, droni e sovrapposizioni sonore di strumenti sia a fiato che percussivi. Maupin suona il sax, il clarino ed una serie di flauti tra cui lo shakuhachi, strumento tradizionale giapponese in bambù, mentre Rudolph appare circondato dalle innumerevoli percussioni  tra cui vari tamburi, berimbau, gong e campane tibetane. Vi sono ampi vuoti tra un suono e l’altro e c’è la possibilità di lasciarci trasportare da questa corrente senza fine come fossimo una barca priva di timone, al netto di punti fissi se non l’onda continua di queste note rarefatte punteggiate dalle percussioni. L’andamento orizzontale della musica, la possibilità di adagiarvisi e di farsi trascinare o cullare, a seconda dei momenti, è resa possibile dall’assetto rigorosamente modale dei brani, con eccezione del quasi-blues finale in cui si palesa la componente tonale, non prevedibile nelle sue modulazioni e resa tale dalla quasi totale improvvisazione dei due musicisti. Non so se l’intento originale alla base di questo lavoro fosse quello di prolungare e dilatare l’estetica originale di Lateef fin dove egli avrebbe potuto ipoteticamente arrivare, oppure se tutto sia stato semplicemente un puro e semplice dono di riconoscenza nei riguardi del Maestro scomparso. Comunque sia il risultato è ammaliante, insolito, ipnotico. Si viaggia all’interno di un museo di temi e immagini archetipiche, un universo perturbante dove si comprende che il jazz, anche quello ”anomalo” come questo, ha potenzialmente la capacità d’intraprendere molte nuove strade, arrivando a risoluzioni spesso inaspettate e sorprendenti.

First movement si presenta come una lisergica visione cosmica, un bordone continuo come una cometa elettronica mentre tra la vegetazione lignea dei suoni percussivi, metallici, echi, voci che sembrano lamenti di preghiere rituali, si fanno spazio i fiati di Maupim. La musica così tracciata non è particolarmente complessa, non richiede concentrazione particolare se non l’attenzione fluttuante, un soggettivo va-e vieni, un’epochè che si realizza attraverso il  silenzio mentale e l’abbandono. Solo così, attraverso una disinibizione sensoriale ed una sospensione – momentanea – del nostro senso critico si potrà godere profondamente della musica. Se ne verrete catturati, com’è successo a me, vi verrà voglia di ripetere l’esperienza d’ascolto e la traccia non vi sembrerà mai la stessa, ogni volta arricchendosi di vibrazioni nuove dapprima sconosciute. Second Movement viaggia su orme magico-stregonesche, introdotta dal flauto pieno di riverberi che spande un’aura azzurra attorno a sé. Qualche campana, gong, percussioni sconosciute,  che con l’aiuto di un drone elettronico sembrano simulare, nell’insieme, una danza od una marcia notturna. Un alone di velata inquietudine circonda l’ascolto che si riempie di stimoli, di suoni e di animali notturni, innescando un’atmosfera ritmica e animata da misteriosi turbamenti.

Third Movement è l’espressione più astratta della sequenza totale dell’album. I suoni, soprattutto quasi esclusivamente percussivi, almeno nella prima parte, si liberano apparentemente da ogni legame eppure non sono mai disturbanti. È come se un invisibile nastro armonico mantenesse un costante equilibrio di base. Normalmente non sono un amante di anarchie sonore ma queste riescono a catturare l’attenzione, se non altro per la bizzarria delle combinazioni, del mescolamento tra frequenze basse e quelle più alte al limite degli Hertz udibili, e infine dalla imprevedibile varietà tra le combinazioni acustiche ed elettroniche. Con Fourth Movement partono subito delle percussioni elettroniche sulle quali se ne stratificano altre acustiche, tamburi, voci, fischi di sax soprano. Praticamente tutto ciò che intendiamo come musica melodica, qui, si è completamente dissolto. Un movimento vorticoso, spiraliforme, ha sostituito l’orizzontalità fino ad ora presente.  Ma quando il clarino basso riprende una melodia affascinante ed oscura, tribale, che pare provenire dal cuore della foresta di un romanzo “fantasy”, qualcosa ritorna all’origine. Flauti dionisiaci strapazzati dalle ritmiche abbozzano frammenti melodici che sembrano immergersi in suoni naturali. Musica spregiudicata, senza dubbio, ma mai urticante o pensata con lo scopo di ferire o aggredire l’ascolto. Il Fifth Movement  si imposta su una dilatata sequenza di accordi di tastiera, per lo più dissonanti ma è il solo brano dove si snoda un andamento melodico sui generis e dove ad un certo punto compare una scala blues nel frammezzo di uno spettrale solo di sax soprano che mi ha ricordato Steve Lacy. Sono pochi secondi, dove comunque si avverte lo spostamento della prua di qualche grado in una direzione almeno all’apparenza più “usuale”. Il sax sembra smarrirsi inseguendo una lontana, nascosta melodia, con il piano che si aggrappa al passaggio di una coppia di accordi in cui viene alterata la quinta che diventa eccedente e questo semplice scambio di funzioni sembra poter essere un’ancora di salvezza, l’unica, per un orecchio che abbia bisogno di qualche punto fermo.

Decisamente un album pieno di mercurio, come lo intendevano gli alchimisti, cioè imprevedibile, cangiante, inafferrabile. La sequenza delle composizioni pare fuori centro ad un ascolto superficiale. Invece ci si accorge come il centro non sia altro che lo spazio vuoto, lo zero metafisico che è dappertutto e nel contempo da nessuna parte. Eppure, nonostante qualsiasi critica si possa fare, questo disco ha un fascino torbido, un groove oscuro che ci attrae su fondo, anche se questo punto d’arrivo non è altro, paradossalmente, che il suo inizio.

Tracklist:
01. First Movement
02. Second Movement
03. Third Movement
04. Fourth Movement
05. Fifth Movement