R E C E N S I O N E


Recensione di Lucio Vecchio

Sulla scena mondiale da più di sessant’anni, il sassofonista e flautista americano, primo pioniere della musica globale Charles Lloyd, non sembra interessato ad adagiarsi sugli allori ed all’età di ottantaquattro anni, ancora all’apice delle sue forze e prolifico come sempre, ha pubblicato una trilogia suonata in compagnia di grandi musicisti. Il 23 settembre ha rilasciato Trios: Ocean, il secondo album della serie Trio of Trios, un progetto che lo vede impegnato con tre diverse formazioni. In questo disco, di cui parleremo a breve, Lloyd viene affiancato da Gerald Clayton al pianoforte e da Anthony Wilson alla chitarra. Il primo album della trilogia, Trios: Chapel con il chitarrista Bill Frisell e il bassista Thomas Morgan, è stato pubblicato il 24 giugno, e il terzo, Trios: Sacred Thread con il chitarrista Julian Lage e il percussionista Zakir Hussain, uscirà il 18 novembre.

Ma veniamo all’oggetto del contendere, Trios: Ocean. L’album è la registrazione di un live che il terzetto ha tenuto il 9 settembre 2020 nel teatro Lobero, a Santa Barbara, città natale di Lloyd. Lo spettacolo, a causa della pandemia, si è tenuto senza pubblico ed è stato trasmesso in streaming. Il disco, stampato sia in formato CD che vinile per Blue Note, è composto da quattro lunghi brani in cui i musicisti si immergono nell’atmosfera straniante del teatro vuoto, riportandoci con profondo rispetto, per non dire devozione, alle radici del jazz.

L’album si apre con The Lonely One, in cui i toni cupi del sax di Lloyd si intrecciano con le contro-melodie di Clayton e Wilson, ritrovandosi e divergendo fino a sfiorare il freejazz, per poi incontrarsi di nuovo sul tema nel finale del brano. Hagar and the Inuits, secondo pezzo del disco, si apre con un sax solo, che lascia presto la scena a pianoforte e chitarra che, prima timidamente e poi in maniera decisa, diventano protagonisti occupandone tutta la parte centrale. Il sax rispunterà solo nella parte finale, per chiudere il brano quasi in un omaggio a Ornette Coleman, con il quale Lloyd ha suonato quando era un adolescente nel 1956 a Los Angeles. Il disco prosegue con Jaramillo Blues, divertente brano in cui Lloyd abbandona il sax per passare al flauto, il cui suono si muove languidamente sulle atmosfere decisamente blues che propongono Clayton e Wilson. La registrazione si chiude con un brano dal titolo misterioso e suggestivo: Kuan Yin. Kuan Yin è una delle divinità più venerate della tradizione buddista, il cui nome può essere tradotto in “Colei che percepisce i suoni del mondo”. Un omaggio alla musica che Charles Lloyd ha percorso in lungo e in largo nella sua carriera avventurandosi in culture e generi ben al di fuori delle sue origini jazz.

Il disco non è sicuramente per tutti, ma se volete avere nella vostra collezione un cd che non teme il tempo e che potrete riascoltare anche fra molti anni riscoprendolo ogni volta, questa incisione fa per voi.

Tracklist:
01. Lonely One
02. Hagar and the Inuits
03. Jaramillo Blues
04. Kuan Yin