I N T E R V I S T A


Articolo di Arianna Mancini

Siamo il collettivo Paolo Benvegnù e trasmettiamo l’invisibile”.
Si annunciava così la campagna di crowdfunding che ha preceduto l’uscita del nuovo album del collettivo Paolo Benvegnù: Delle Inutili Premonizioni. Venti Anni di Misconosciuto Tascabile Vol.2 (A Collection of Oldies), pubblicato lo scorso 27 maggio. Un percorso a ritroso in cui Paolo Benvegnù ed i suoi compagni di viaggio (Daniele Berioli- batteria, Gabriele Berioli- chitarra, Luca Baldini- basso, Saverio Zacchei- trombone) hanno reso omaggio con un’attenta ed amorevole riscrittura e rivisitazione a brani del passato che hanno segnato la cultura new wave. In questo percorso di riscoperta, intessuto su dodici canzoni iconiche, tornano alla luce nuove riletture di: Echo & the Bunnymen, Faust’O, Jim Carroll Band, Joy Division, New Order, Peter Murphy, Psychedelic Furs, Roxy Music, Spandau Ballet, Tears for Fears, Venus e Wall of Voodoo.

L’iniziativa di crowdfunding, lanciata sulla piattaforma Produzioni dal Basso, sotto la direzione e produzione di Officine della Cultura prevedeva varie ricompense, fra cui il secret concert di presentazione al Teatro Verdi di Monte San Savino, i concerti in barca a vela sul Lago Trasimeno ed i concerti con registrazione del documentario sulla new wave di Roma, Firenze e Milano.

Le correnti che hanno condotto nel tempo presente Paolo Benvegnù, venti anni dopo gli Scisma, sono traiettorie in cui si è consumata una continua formazione, non solo volta alla ricerca stilistica musicale ma anche immersa a sondare spasmodicamente la parola, nella sua pura accezione di logos, così come veniva intesa dalla cultura greca classica, pensiero e sua concreta manifestazione. L’ampio spettro di ricerca non può che inevitabilmente portare verso l’alto, la poetica di Benvegnù è una poetica verticale, come il suo mare, ma Benvegnù è anche altro, è il cantore degli abissi, della parte più terrestre, della polvere, della carne e del sangue. Con il suo sguardo seziona le vibrazioni impalpabili del non detto ma sa altresì immergere le mani nel fango, dando consistenza a visioni da una duplice prospettiva: metafisica e viscerale.

Abbiamo avuto l’immensa gioia di incontrare Paolo per un caffè a Roma, nei pressi del teatro Argot Studio poco prima del suo spettacolo che unitamente al concerto ci renderà partecipi della registrazione del documentario. È sempre rassicurante potersi confrontare con personaggi di tale calibro, con un’inconsapevole grandezza d’animo, si ritorna a casa arricchiti interiormente.  

Ciao Paolo, grazie per essere qui e per aver trovato del tempo per noi, proprio poco prima del vostro spettacolo, come stai?
Sono sempre più terrorizzato, una cosa stranissima, non terrorizzato dalla mia presenza. Non è un discorso legato al dare un esame ma di verificare il tipo di ricerca che uno fa e allora ogni volta in me c’è una tensione non usuale, perché attraverso quello che sentiamo, quando facciamo queste cose, verifichiamo la ricerca che abbiamo pensato; che poi non è nemmeno un pensiero è un retro-pensiero, anzi è un pre-pensiero, allora questa cosa ogni volta mi mette in crisi…ma com’è possibile? Ho quasi sessant’anni, come si fa?

Prima di inabissarci nel presente, nel vostro nuovo disco, partiamo dalle origini: le premonizioni. Le premonizioni sono divinazioni, nel bene e nel male, perché inutili se poi alla fine ci danno dei segni? Perché l’ossimoro?
Sì, ci danno dei segni ma io per mia formazione non ho mai dato retta a queste premonizioni. È come se nella ricerca di cui parlavo testé cercassi disperatamente di avere dei segni su quello che potrebbe essere il presente prossimo, più che futuro prossimo, però spesso non mi fido di me. Perciò, perché sono inutili? Perché stante queste premonizioni, che poi si sono verificate quasi puntualmente esatte nella loro totalità, io ho sempre agito in maniera opposta, ecco perché sono inutili. Non è un ossimoro voluto, è proprio perché con il senno di poi, dopo vent’anni di lavoro su me stesso, ho capito che fondamentalmente non mi sono mai fidato di me. Cosa perfettamente legale e naturale però sbagliata, non per un discorso legato all’autostima ma legato al conforto che ci potrebbe dare il fatto di percepirci diversi da quello che siamo, non dico migliori o più percettivi ma diversi. In realtà, me lo dico spesso, noi vediamo da due buchi. Le nostre sensazioni sono legate a delle cose strettamente umane, ma noi non siamo questo, se fossimo cani o api, questo mondo lo vedremmo in maniera completamente diversa. Perciò qual è il senso della verità rispetto a quello che sono le nostre sensazioni, le nostre percezioni? Alle volte ho sentito in maniera specifica delle cose e spesse volte sono andato in direzione ostinata e contraria, e l’ostinazione in questo caso è ignoranza.

Disobbedire alla disobbedienza…
Eh… disobbedire alla disobbedienza, è un po’ quello il senso, perciò avrei potuto fidarmi di più del fatto che davvero noi siamo quel poco che siamo, quel che in realtà siamo, per me, è ben più probante ma tutto lo è. Non parlo dei manufatti, parlo della natura. Ho sempre una gran paura, mi piacerebbe poterti dire che sono talmente così risolto che non ho paura, in realtà non ho più il timore di scomparire, quello non ce l’ho più perché ormai ho rotto le scatole fin troppo, ma c’è la paura di non essere nell’armonia delle cose, mettiamola così.

Nella campagna di crowdfunding che ha preceduto l’uscita dell’album il nostro “poeta misconosciuto” recitava: “Siamo il collettivo Paolo Benvegnù e trasmettiamo l’invisibile”. Di cosa ci parla questo invisibile?
È proprio quello di cui parlavo prima. Noi nella nostra sensorialità, nel nostro visibile, abbiamo delle percezioni che per forza di cose, fisiologicamente, dobbiamo considerare come una verità; ma la realtà è molto diversa da quello che sentiamo perciò l’idea è quella di andare verso l’inaudito, verso l’invisibile. Questo poi è un momento storico in cui, nella realtà si tratta solo della funzionalità delle cose, in natura non esiste la funzionalità delle cose, in natura esiste la natura. Quando il vento muove gli alberi, questi si spostano fisicamente per forza di cose, però in realtà perché non possiamo vederli come se fossero in una danza fra di loro e l’altro? L’alterità. In questo momento secondo me c’è bisogno di astrarsi ed io, quanto meno, ne ho molto bisogno.

Questo mi fa pensare a Animali di Superficie, in cui canti “la soluzione invece è l’invisibile” o a Nello Spazio Profondo: “È un fuoco inestinguibile vedere l’invisibile”, un leitmotiv che risuona nella tua poetica.
Certo! C’è un’esattezza in quello che noi non riusciamo a controllare. Se ci pensi, noi non riusciamo ad abitare un posto, noi dobbiamo dominarlo e perciò è ovvio che il nostro sguardo è uno sguardo di dominio. Noi fondamentalmente abbiamo delle strutture di pensiero difficilissime da estirpare. Ad esempio, questa ossessione verso il futuro è una struttura giudaico-cristiana, se ci pensi; prima il tempo era visto in maniera diversa: tu nasci, cresci, ti sviluppi e muori, ti decomponi ed è una cosa naturale. Perciò, anche la morte vista così, non è una cosa così inaffrontabile perché fa parte della vita. Poi arrivano questi grossi pensatori che fanno in modo che tu, in realtà, possa sempre scommettere in un futuro in cui sei indenne da ogni cosa: c’è il paradiso, c’è il valhalla, c’è il posto in cui ci sono venti vergini che t’aspettano…capisci che questa è una proiezione che non ha alcun senso! Io stesso però purtroppo non riesco ad astrarmi da questo tipo di pensiero pur sapendolo, ecco vedi: inutili premonizioni, nello specifico.

Delle Inutili Premonizioni Volume II esce ad un anno di distanza dal Volume I, un lavoro acustico, intimo, nudo. Mentre l’ascoltavo ho pensato quasi che fosse concepito ad personam, come se tu entrassi in qualche modo a casa di ciascuno di noi singolarmente, una singolarità collettiva. Un disco che è un sunto dei vent’anni del tuo percorso artistico post Scisma. C’è un filo interiore che lega le pietre del tuo trascorso discografico alla rivisitazione e riscrittura dei brani appartenenti alla cultura new wave? Cosa lega questi due intimismi?
In realtà penso che sia molto semplice, faccio questo perché sono mancante, e questo essere mancante deriva espressamente dal momento storico in cui ho avuto un’assenza profondissima all’interno del mio nucleo famigliare, e l’unica maniera per riuscire a spiegarmi delle cose era astrarmi e sentire la musica che c’era allora; e perciò, in realtà, il volume due fa in modo che il volume uno sia una conseguenza. Questi brani mi hanno portato, con strade completamente diverse, alla mia scrittura e a quello che normalmente facciamo con i Benvegnù; c’è una mutua consequenzialità. Quando abbiamo mixato il disco numero uno, quello dei pezzi nostri, l’idea non era proprio entrare in sintonia specifica con quel qualcuno, ma è stata per l’ennesima volta una lotta di comprensione con me stesso. Se è vero che uno cerca di scrivere fuori dallo spazio e fuori dal tempo, dopo vent’anni succede ancora questa cosa? È veramente fuori dallo spazio e fuori dal tempo? Fuori dal mio spazio e dal mio tempo o dallo spazio e dal tempo dei miei compagni? Era questa l’idea. Poi questo secondo volume, a parte il discorso di lavorare in collettivo, è stato più divertente. L’altro era una situazione molto toccante per me ed io sono quello preposto a fare questa cosa, poi ovviamente quando dividi il peso con le altre persone è molto più confortante, non tanto per quello che succede all’esterno ma per ciò che succede all’interno, fai parte di una geometria di energie, sei meno sbilanciato. 

Nella scelta delle canzoni per il secondo disco ho notato che avete spaziato a livello di provenienza geografica: immancabile Regno Unito, Stati Uniti, Belgio, Italia. Pure per quanto riguarda il registro sonoro avete eseguito un’interessante ricerca, c’è una grande varietà di stili melodici. Qual è stata la bussola che ha portato la nave Benvegnù a scegliere questi brani?
Io ho proposto questo tipo di visione: sono tutte canzoni che mi hanno colpito in maniera specifica. Ovviamente tre di loro non c’erano, sono troppo giovani, però ho fatto in modo che le ascoltassero, spiegandogli che tipo d’incontro ho avuto io con questi brani. Alcuni mi hanno colpito per la sonorità, altri per la letteratura dei testi, altri per il surrealismo, altri per la visione di sangue. Ad esempio, i Venus, un brano del ’97. Io li vidi suonare quel pezzo per la prima volta e fu una folgorazione totale dal punto di vista dell’attitudine verso la scrittura e, anche se non mi piace definirla tale, verso l’arte. Con gli Scisma andammo a suonare in Francia, era una grossa tournée promulgata da Arezzo Wave con gruppi di tanti paesi europei, noi ci andammo stolidamente da gruppo che suonava forte, che aveva strumenti elettrici. Subito dopo di noi suonarono i Venus, io li vidi sul palco con una piccolissima batteria, un contrabbasso, un violino e una chitarra acustica …mai visto un assalto così meraviglioso e sanguinoso. Per noi Scisma fu una rivelazione, ci cambiò completamente lo sguardo, la prospettiva. Tant’è vero che dopo Rosemary Plexiglass, che era un disco pop, da quel momento in poi noi facemmo completamente l’opposto. L’idea è stata quella di andare verso le folgorazioni. Partendo da lì, la bussola è stata questa anche per la scelta dei brani.

Forse come domanda potrebbe risultare un po’ riduttiva o limitante, ma vorrei sapere se nei brani scelti ce n’è uno che risuona in maniera più forte nel tuo DNA del cuore.  
Il pezzo che mi è assolutamente più vicino è quello della Jim Carroll Band. Quel brano ha la delicatezza che mi piacerebbe avere nella vita, ma …non ce l’ho.
La mia sensazione è che io non ci sia ancora arrivato, non tanto nella scrittura del brano, ma parlo del rispetto. Paradossalmente un brano funziona in assenza non tanto quando c’è, non tanto quando lo suoniamo, non quando lo suona la Jim Carroll Band; ma è tutto quello che non viene detto da quel pezzo. C’è uno sguardo verso il mondo, dove tu lo accarezzi e lasci passare, non è un accarezzare per avere appartenenza, è semplicemente rispetto dell’alterità. Quello è ancora un aspetto che il quotidiano mi porta ogni tanto ad appesantire ma che vorrei raggiungere.

Mi sono sempre chiesta come tu faccia a concepire certe visioni che inondano le tue liriche. Hai la rara capacità di cogliere la visione rendendo l’etereo tangibile, i tuoi brani vanno oltre la musica stessa, sono un’esperienza.
È un complimento assurdo! Mettiamola così: negli ultimi trent’anni, non c’è un instante della mia vita in cui io non tenti in maniera assoluta e rigorosa di ricercare. Non tanto la visione, ma la comprensione delle cose, perché profondo ogni energia della mia vita su questo, che non significa bellezza, significa impegno. Io sono spasmodico, non mi do tregua. Questo non significa andare verso qualche tipo di perfezione, anzi è proprio il contrario, è cercare di comprendere una cosa e poi lasciarla andare immediatamente, non per inseguirla …è come quando vedi le ginestre abbarbicate su una scogliera. Esiste qualcosa di più vitale di quello, è un atto di vita, poi alle volte riesco a fare in modo che i miei compagni comprendano questa cosa, alle volte non ci riesco. Mi succede che quando penso di essere entrato in un certo tipo di metafisica della parola, se mi arriva qualcosa e ritengo che queste parole possano diventare in maniera minima materia, ho un timore colossale nel farle ascoltare ai miei compagni, questo è paradossale perché dovremmo avere un’intimità per cui la comprensione dovrebbe essere più semplice e invece…

Il timore forse deriva da un’eccesiva autocritica, e così diviene un’ovvia conseguenza.
Non lo so, è difficile, specialmente quando uno inesorabilmente sfocia nella senilità, come mi capita… è un momento bellissimo della mia esistenza perché sto entrando in un tramonto, lunghissimo spero, quanto meno per dare una mano ai miei cari. Magari questo sentore fa in modo che io riesca a comprendere di più lo sguardo degli altri in maniera più specifica, semplicemente non vorrei essere da un lato troppo abrasivo e da un altro non vorrei turbare il loro sguardo. Il timore è quello di non andare a tangere lo sguardo degli altri. Che cos’è l’amore? E non parlo semplicemente dell’amore di relazione, ma dell’amore verso il mondo. L’amore è intercettare l’irrazionale dell’altro, è ovvio che io mi senta in pericolo quando snudo il mio irrazionale verso l’altro, perché sono nella debolezza più totale. Questo è, ed è fisiologico avere timore, poi ci si può ridere sopra ma sono convinto che è un gioco serissimo, così come lo è la vita. L’esposizione è legata alla senilità, magari avessi quell’arroganza stupida di quando ero ragazzo, sarei molto più tranquillo, però forse è anche interessante che la mia esperienza sia arrivata a questo livello in cui anche verso la mia compagna, o verso le persone che mi vivo di più nel personale e nel quotidiano, io cerchi di filtrare un po’ quello che io sento del mondo. Anzitutto perché non è la loro visione e poi perché potrebbe sbilanciare il loro sguardo. Quando parlo del fatto che per me non esiste un pubblico ma esiste un privato, non intendo dire che scrivo delle cose per egoismo, secondo me è necessario, non devi pensare a ciò che succede fuori rispetto a quello che è una tua idea o performance, non deve esistere questo per me, personalmente. Attendi semplicemente che le cose accadano, e se succedono e uno intercetta l’irrazionale dell’altro allora si sviluppa qualcosa che non è indifferenza e che non è odio.

Com’è nata l’idea della registrazione del video documentario unitamente all’occasione di un vostro spettacolo? Fra l’altro dopo Roma, sarà la volta di Firenze e poi Milano.
L’idea è stata un po’ sposata da tutti ma in particolare da Luca Baldini, lui fa il regista di teatro perciò ci lavora da tanto tempo su queste cose. L’intuizione è di andare a trovare le patologie del contemporaneo ed è legata a dei concetti chiave nei brani che abbiamo scelto. In quelle canzoni c’è un’idea del futuro, quel futuro visto da ragazzi di 23, 25 anni quarant’anni fa. Ci piaceva metterla in rapporto con il futuro visto ora, non soltanto da quella generazione ma anche da ragazzi più giovani. Perciò è semplicemente uno sguardo filosofico su quello che è il contemporaneo, su come viene visto il futuro, su come vengono percepite le parole: libertà, desiderio, perdita. Certo è, che si tratta di un’operazione legata al conforto, l’idea è di parlarne per avere conforto. Qualsiasi cosa creativa uno faccia, a mio parere, dovrebbe avere uno sguardo che va oltre al riconoscimento o all’appartenenza dell’altro verso ciò che fa. Dovrebbe essere qualcosa di confortante, e non intendo che debba andare a sostituire la religione. È una pratica laica perché non ci sono dei dogmi da seguire, è semplicemente sviluppare lo sguardo sull’alterità e parlare insieme dei punti in comune che abbiamo e anche dei disaccordi che ci possono essere. Questo, a mio parere, dovrebbe essere fare delle cose creative, il resto faccio un po’ fatica ad articolarlo. L’intrattenimento è una cosa che ha un suo fine e va benissimo, ma ciò che io faccio con i miei compagni è trovare prima di tutto un conforto per noi, e nel caso, se qualcuno può intercettare questo irrazionale di cui parlavo prima, magari cambiando la propria prospettiva di sguardo anche solo di un grado, averne un respiro più ampio. Per me è questo il senso, poi è chiaro che un momento storico come quello attuale in cui siamo assoggettati alla tecnologia e alla tecnica questo lascia il tempo che trova, però chi dice che sia più utile costruire lastre d’acciaio oppure buttare un sasso in uno stagno? Qual è la verità che dice che costruire un’automobile abbia più senso di costruire un origami?

Tu parli spesso di un’apocalisse gentile, credi quindi in un’apocalisse gentile nell’accezione di una rinascita o ritorno al vero piacere dell’ascolto attivo di un brano?
Io credo che questo non sarà più possibile, perché ora siamo sotto un altro dominio, quello dell’occhio. Gli altri sensi: il tatto, l’udito, l’olfatto …no quest’ultimo arriverà ad essere come la vista, hanno meno rilevanza. Adesso l’ascolto è qualcosa di appena percettibile, percepito, quindi non credo ci possa essere metamorfosi in questo senso, penso che noi siamo come dei tipografi che stampano con inchiostro, come se fossimo Gutenberg.

Cosa sta brulicando nella tua folle mente per il futuro? Hai qualche visione dalle tue galassie parallele?
Ma che folle mente! (Ndr. Sorride) Ancora ho poca fantasia ma forse fra qualche anno riuscirò ad averne un po’ di più. Con i miei compagni stiamo cercando di fare un disco nuovo che si chiama Transmiserabilia e che parla del momento attuale. Dopo essere andati un po’ in giro nello spazio e nel tempo direi di parlare di quello che succede ora qua.

Quindi Victor Neuer ritorna sulla terra…
Sì, ritorna strettamente sulla terra ed è un uomo fallito, fallibile …parlo del fallimento dell’umanità nei confronti della creazione e della natura, se è vero che la dominiamo e non l’abitiamo. Abbiamo già scritto dei brani ma nella realtà quello che mi piacerebbe fare è riuscire ad essere molto più ispirato, e non parlo di ispirazione, quella che viene dal cielo, mi piacerebbe tanto riuscire a non essere così disattento; e quando parlo di disattenzione intendo che spesse volte mi perdo nel troppo vicino come se guardassi un quadro da vicinissimo e allora quelle mediamente rare volte in cui riesco a vedere il quadro in maniera un po’ più complessa e da lontano…, penso che per certi versi potrei essere più fantasioso. Il mio problema è che guardo sempre da qui, son troppo terreno, non riesco mai a staccarmi dalla terra, ed è un peccato perché io anelerei ad essere più ispirato, leggero ma come vedi anche dal punto di vista fisiognomico… (Ndr. Sorride)

Con la tua riflessione mi hai fatto venire in mente un’ultima domanda. L’ispirazione, cosa accade dentro di te nel momento esatto in cui si palesa?
Cosa accade? …Attendi spasmodicamente, come ti dicevo prima, sei sempre teso all’ascolto e poi quando arriva qualcosa è un conforto talmente grande, che mi viene da piangere. È un conforto per me ma non ha la volontà di essere una visione per gli altri. Perciò mi viene da piangere perché forse in quell’istante, quando tutto ciò che è nell’aria per me diventa materia, dico per me perché nell’aria c’è sempre, è come se facessi nascere un bambino dal mio ventre. Ciò di più grande che un essere umano può fare è creare la vita, e io ne ho una grande nostalgia e una grande malinconia perché probabilmente e ovviamente non posso farlo, e quando mi commuovo, mi commuovo per questo. Mi commuovo perché vedo una trasformazione di qualcosa in qualcos’altro e non da attore. Non sono io con la volontà, io sono soltanto in ascolto e perciò quando capita è bellissimo e piango. Vedi sta lacrimando il cielo anche adesso [sta iniziando a piovere], le lacrime sono sempre viste come un segno di debolezza, ma perché? Nella mitologia gli eroi piangono, perché fa parte della vita e allora se c’è una cosa che io posso dire alla fine dei discorsi, è che rivendico la mia possibilità di commuovermi, non tanto per quello che faccio, io mi commuovo anche quando vedo il mondo, quando vedo l’altro. È una possibilità semplice a cui tutti possono aderire.

Primordiale…
Sì, è primordiale e confortante.

Che dire? Mentre ci godiamo gli spettacoli del tour, inconsciamente siamo già un po’ in trepidante attesa del ritorno di Victor Neuer sul pianeta terra. Lui, forse, ci riporterà un po’ di polvere di stelle. Ne abbiamo tutti un immenso bisogno.      

Per le immagini sonore che hanno impreziosito l’articolo ringraziamo: Stefano Fristachi e Officine della Cultura per averci donato gli scatti di Antonio Viscido e Claudia Cataldi.