T E A T R O


Articolo di Barbara Guidotti

Ci eravamo congedati da Marco Goldin nel backstage del suo spettacolo “Gli ultimi giorni di Van Gogh. Il diario ritrovato”. Lo rivediamo sul palco del Teatro Nuovo di Salsomaggiore, al suo debutto.
Quando le luci in sala si spengono, e il sipario finalmente si apre, lo sguardo viene catturato dai pannelli luminosi sullo sfondo, che sprigionano gli inconfondibili colori delle pennellate di Van Gogh; a lato, stagliati sulla scenografia e sovrastati dal lucernario che si affaccia sul cielo stellato, la sedia, il tavolino e la lampada – che ci sono ormai così familiari – a tratteggiare in modo essenziale la stanza in cui l’artista visse i suoi ultimi istanti.
“Ci sono braci che non si spengono mai…”: la voce fuori campo di Marco Goldin si diffonde ovunque, proiettandoci direttamente nella storia. È il locandiere Ravoux ad accoglierci, quando, a funerali avvenuti (“se ne sono andati tutti”) svela di custodire il diario di Van Gogh; il bianco e nero delle foto d’epoca e i contributi filmati ci riportano al passato, mentre le immagini dei luoghi e dei paesaggi reali si fanno per magia quadri, come accade al municipio di Auvers.

Goldin si muove sulla scena ora prestando la propria voce alle parole del diario, ora raccontando gli eventi che condussero Van Gogh da Saint Remy a Auvers-sur-Oise, passando per Parigi. Il registro poetico si stempera nella ricostruzione degli eventi biografici ed il racconto in prima persona si fa descrittivo – a tratti minuzioso – assumendo una cadenza più lenta, quasi didascalica: dalle sembianze del narratore emerge lo studioso, e il tono si fa sommesso, come un discorso interiore in cui si rivelano i frutti della ricerca di una vita.
Ripercorriamo le ultime tappe della vita di Van Gogh, da quando abbandona la Provenza nel maggio 1890, dopo il ricovero volontario nel manicomio di Saint-Paul-de-Mausole, alla sosta a Parigi, dove lo accoglie il fratello Theo, fino a all’arrivo a Auvers-sur-Oise, dove concluderà i suoi giorni il 29 luglio 1890. E in tutto questo, le amicizie e gli incontri con coloro che segnarono la sua esistenza e la sua vena artistica, tra cui, in particolare, Camille Pissarro e Paul Gauguin.
Quando si interrompe per uscire momentaneamente di scena, Goldin lo fa per lasciar parlare le immagini: cieli azzurri o notturni blu tempestati di stelle, campi di grano, alberi e colline, prati e distese di fiori scorrono davanti ai nostri occhi accompagnati dalla musica delle opere strumentali di Franco Battiato (Gilgamesh, Telesio e Joe Patti’s Instrumental Group). Sono scorci delle campagne olandesi, belghe e francesi, quegli stessi luoghi e scenari che incontriamo sulle tele di Van Gogh a testimoniare la sua incessante ricerca di una bellezza sempre trovata nella natura.

“Ho cercato in luoghi diversi un me stesso diverso”.

E nonostante la tensione al realismo della sua pittura, la sensazione che ci afferra nella visione è quella – fortemente onirica – di sorvolare paesaggi che si snodano in un sogno che non è il nostro (forse un sogno di Vincent Van Gogh, forse quello di Marco Goldin) ma che ci assorbe, in una suggestione ipnotica accentuata dalle cadenze ritmiche delle note di sottofondo. E poi ancora i ritratti, i dettagli dei visi, gli occhi che ci fissano: elementi che forniscono lo spunto per una riflessione sull’aspirazione dell’artista a catturare sulla tela – nell’intimo della quotidianità familiare – l’essenza dello spirito umano.
Incontriamo così i personaggi del soggiorno ad Auvers divenuti immortali grazie alle tele di Van Gogh: Paul-Ferdinand e Marguerite Gachet, Marie Ginoux, Adeline Ravoux…
È in questa dimensione visionaria – in questa ubriacatura di colori e sonorità che smuove l’anima – che la serata trova i suoi momenti più emozionanti, insieme al pathos che permea la seconda parte della narrazione, dove il tormentato percorso esistenziale dell’artista approda al suo epilogo, e la scelta finale di fermarsi in un mondo che cambia troppo in fretta non riesce a nascondere una struggente dichiarazione d’amore verso la vita e un’insopprimibile aspirazione alla libertà.
Dovendo in una parola esprimere l’atmosfera e il senso di questo spettacolo, li vedo racchiusi in un aggettivo che lo fa diventare un ossimoro: intimo. Uno “spettacolo intimo” come l’ultimo sguardo tra Vincent e Theo. La messa in scena si snoda infatti su un tempo interiore, sospeso, solo a tratti scandito dall’incalzare delle immagini e della musica. C’è qualcosa di sperimentale, in tutto questo, che si discosta da un’idea di teatro tout court, e trova il suo momento più riuscito quando l’incedere narrativo, accompagnando in modo struggente il congedo di Van Gogh dal mondo – nel lento e inesorabile affievolirsi della sua fiamma vitale, fino all’ultimo battito – diffonde un’aura di malinconia che aleggia sulla platea e ti rimane addosso a sipario chiuso.

“Mi troverete nelle braci mai spente di un tramonto con un po’ di vento”.