R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Le avventurose progettualità delle formazioni triangolari costituite da contrabbasso, batteria e fiati, senza strumenti classicamente armonici come il piano e la chitarra, hanno sempre attratto la mia attenzione per due motivi fondamentali. Prima di tutto per il peso della buona riuscita dell’esperienza che gravita molto, com’è ovvio aspettarsi, sulle spalle dello strumento solista. Si va senza rete e il musicista che si trova al centro dell’attenzione deve essere super-bravo perché per ogni eventuale momento d’indecisione e di sbandamento si rischia la caduta. In seconda analisi sono attratto dai concetti sintetici che in questi casi specifici sottolineano una forma mai banale di intelligenza musicale, cioè la capacità di melodizzare e armonizzare con pochissime note, appoggiando il solista alle sole linee di contrabbasso. In questa circostanza l’ultima pubblicazione del batterista é Kendrick Scott, Corridors, presenta un’anomalia, se così possiamo chiamarla, perché le composizioni non sono a carico dello strumento a fiato ma sono frutto della creatività dello stesso batterista. Non è la prima volta, anzi, che assistiamo ad un’intensa attività compositiva dei percussionisti. Ad esempio, su Off Topic ci siamo recentemente occupati di Sebastian Rochford – trovate una sua recensione qui – ed anche del nostro connazionale Marco Frattini – potete leggere qualcosa d’altro qui. In questo Corridors il sax suonato da Walter Smith III, quarantatreenne membro dell’Ambrose Akinmusire Quintet e dell’Eric Harland Voyager, attrae oviamente la maggior parte dell’attenzione ma non potrebbe farlo più di tanto se non avesse alle spalle il contrabbasso di Reuben Rogers – curriculum denso di compartecipazioni con gente del calibro di Charles Lloyd, Aaron Goldberg, Dianne Reeves, Joshua Redman, Phil Woods, Thomasz Stanko e qui mi fermo per respirare – e soprattutto la batteria, ovviamente, del titolare dell’album, Kendrick Scott. Quest’ultimo è nato a Houston, Texas, quarantatre anni fa, ed oltre al nutrito numero di collaborazioni che fin qui ha realizzato e agli importanti mentori che ha avuto come Joe Sample, Terence Blanchard e Charles Lloyd tra gli altri, ha alle spalle quattro dischi con il suo gruppo Oracle – due con l’etichetta Blue Note più questa terza nuova pubblicazione con una band diversa – ed un lavoro uscito esclusivamente a suo nome pubblicato dalla Criss Cross nel 2009.

Al primo ascolto salta all’orecchio il particolare mood di questo trio incentrato attorno al sax melodico di Smith III, coinvolto in fraseggi relativamente lineari, quasi sempre molto chiari e leggibili. Evidentemente questo sassofonista non ama esagerare né esaurirsi in vorticose circolarità di fiato, preferendo un’espressione senza toni particolarmente virulenti né troppo concitati. La componente ritmica, pur sostanziosamente presente, si affida alla decisa policromia di Scott e all’intenso processo di coesione effettuato da Rogers. Eppure, da tutto questo fulgore strumentale, emergono alcuni brani che risaltano per la loro componente cantabile – in effetti si ascolta ogni tanto un accompagnamento vocale gestito dallo stesso Scott – risultando così coinvolgenti da essere individuabili tra gli elementi migliori in assoluto dell’album. C’è poi una considerazione finale, non meno importante. L’idea e la realizzazione di questo disco – così come per molti altri, è il caso di ricordarlo – si è concretizzata durante l’epidemia Covid e il conseguente lockdown. Ma invece di riflettere esclusivamente su sé stesso e sulla propria ombra, come molto junghianamente lo stesso Scott ha rivelato al giornalista Rob Sheperd in un’intervista pubblicata su Jazz Gallery nel settembre del 2021, l’Autore ha preferito interrogarsi sulla assoluta necessità dei legami tra le persone. E questo soprattutto in una grande città come New York, dove attualmente Scott abita, cioè una società che vive e prospera sulla rete degli intimi legami delle proprie comunità e quindi sulle relazioni tra individui di culture e storie diverse. Sembra quasi che l’Autore abbia voluto descrivere la chiusura della vita sociale così come un cineasta registrerebbe per immagini ciò che resta di una città svuotata dalla sua naturale vitalità.
What day is it inizia con un intrigante tempo tagliato scandito dal contrabbasso, dove Scott passa le sue bacchette attraverso tamburi e piatti con leggerezza e agilità fanciullesca, innescando per brevi momenti qualche accenno d’assolo, come fossero delle parentesi percussive tra le frasi del sax. Il tema è agile, l’improvvisazione di Smith III si scava un proprio recesso muovendo velocemente il fiato e alternandosi, come si è detto, in un botta e risposta con la batteria. Il brano ha una sua immediatezza e viene gestito con equilibrio. Corridors è la metafora dello spazio comune tra gli appartamenti condominiali, vuoto per necessità e per paura del contagio. Il contrabbasso decide questo senso di solitudine con un’impro modale di circa un paio di minuti, in perfetta autonomia. Interviene il sax, quasi a sottolineare lo straniamento della situazione con note lunghe e intervallate da variabili silenzi. Pian piano anche Scott acquista spazio e lascia ampia dimensione espressiva in gestione al sassofono. Smith III spinge sull’acceleratore incrementando il fraseggio che si fa via via più tortuoso. Se è il senso di abbandono che questo trio voleva suggerire, dobbiamo dire che c’è riuscito in pieno. Veniamo ora ad uno dei brani migliori dell’album, dal titolo significativo A Voice Through the Door, il mio preferito in assoluto. Lunga introduzione del sax con qualche riverbero che dona profondità allo strumento, poi accensione del tema. E qui parte la magia perché il suono del sax viene raddoppiato dal canto senza parole di Scott. Ne risulta un coro raccolto in una linea melodica affascinante, una cantilena intrisa di malinconia urbana. Da sottolineare la bellezza del contrabbasso, l’unica espressione quasi verbale in uno spazio dove la parola è assente o arriva attutita attraverso la barriera d’una porta, mentre resta solo la musica a riempiere di senso il vuoto creatosi.

One Door Closes è solo un breve appunto risultante dalla sovraincisione di tre tracce di sax che intonano una melodia dal carattere cupo, bellissima nella sua immediatezza. Isn’t is My Sound Around Me aumenta moderatamente la pulsazione ritmica con un brano dovuto alla creatività di Bobby Hutcherson, uno dei più grandi vibrafonisti del jazz scomparso nel 2016. Il tema resta un po’ sommesso mentre batteria e contrabbasso s’allontanano dietro le quinte. A metà brano circa, dopo un rapido passaggio di batteria che comincia a scalpitare, il sax innesca forse il suo assolo più complesso, dimostrando tutta la bravura di Smith III nel gettarsi a capofitto in un fraseggio spigoloso ma veloce e pulito nel suono. One Door Closes, Another Opens riprende il tema quasi cronistico della descrizione dell’isolamento in atto ma il titolo, questa volta, vorrebbe essere più ottimista alludendo alla ricerca di ulteriori opportunità anche dove l’apparenza chiude tutte…le porte. Attraverso ciò che può essere aperto, Scott e compagni riprendono il soggetto di A Voice Through the Door, rimestando pensieri e strumenti in quel Tempo divenuto inessenziale, in cui niente può accadere ma dove almeno si può dialogare con sé stessi. Riappare la voce di Scott che porta nel suo fiato la frontiera di un silenzio non cercato, bensì obbligato dagli eventi. Molto bella la linea improvvisativa di un sax in cerca di redenzione, trovando la propria strada tra i pieni e i vuoti lasciati dal resto del gruppo. Your Destiny Awaits emerge da una struttura ritmica dall’impronta vagamente latina, con Smith III che cresce d’intensità sull’incrocio tra contrabbasso e i serrati controbalzi di batteria. Attraverso questi ultimi si evidenzia tutta la perizia di Scott che arricchisce di fantasia percussiva l’anima del brano. Another Opens è un altro frammento – meno di un minuto – con andamento decisamente cantabile, realizzato con due contrabbassi sovraincisi in splendido contrappunto, in compagnia solo di una leggerissima sollecitazione di charleston, impegnato in un beat regolare in tempo intero. Si chiude con Treshold che nel primo minuto degli oltre cinque a disposizione, vede impegnarsi Scott in uno dei suoi assoli più completi. Il tema introdotto dal sax vive di un momento di rarefazione iniziale, andando via via a rimpolpare il proprio suono dando spazio anche all’assolo del bravo Rogers, pure lui impegnato in un esercizio di alto stile esecutivo.
Direi che Kendrick Scott & C. riescono a superare la prova del trio pianoless – o guitarless ecc… – senza spingere la propria musica tra le braccia di quella sindrome ansiogena che colpisce frequentemente le formazioni di questo tipo, spesso impegnate in volubili circonvoluzioni strumentali per coprire i vuoti naturali lasciati dagli strumenti più armonici. La direzione voluta da questi musicisti non presenta inutili stravaganze, non va mai alla deriva, seguendo spesso delle linee melodiche che si fanno apprezzare per la loro limpida musicalità. E poi, non ultima, anche la possibilità di ascoltare tre musicisti che suonano con una maestria allo stato dell’arte.
Tracklist:
01. What Day Is It? (4:55)
02. Corridors (7:45)
03. A Voice Through The Door (6:53)
04. One Door Closes (0:40)
05. Isn’t This My Sound Around Me? (5:08)
06. One Door Closes, Another Opens (4:53)
07. Your Destiny Awaits (5:44)
08. Another Opens (0:52)
09. Threshold (5:40)
Photo © Justin Bettman
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