MOGWAI

Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Claudia Losini

Ho parlato di recente con Gianluca Gozzi, direttore artistico del TOdays festival di Torino, che ci ha raccontato parecchie cose di quella che è senza ombra di dubbio un’eccellenza italiana. C’ero stato per la prima volta l’anno scorso e sono voluto andare anche quest’anno a tastare di persona.

La giornata di sabato 25 sarebbe dovuta essere quella del grande ritorno dei My Bloody Valentine nel nostro paese ma si sa come sono andate le cose. Tra fan infuriati che hanno ricoperto di insulti band e organizzatori senza minimamente attendere che venisse fornita una qualche spiegazione e, dall’altra parte, un Kevin Shields che, nel momento in cui scriviamo, non ha ancora fatto sapere nulla (confermando dunque indirettamente le ipotesi di chi lo voleva vittima di una delle sue celebri crisi paranoidi), bisogna dire che l’organizzazione del festival è riuscita davvero a cadere in piedi. Reclutati all’ultimo momento un grosso nome come i Mogwai e offrendo comunque il rimborso del biglietto a chi lo avesse richiesto, hanno dimostrato prontezza d’azione e professionalità a tutto campo.
E che abbiano vinto loro è evidente sin da quando arrivo sul posto: di gente in fila ce n’è già parecchia e in capo ad un paio d’ore l’area esterna dello
Spazio 211, dove è allestito il palco principale, apparirà gremita in ogni ordine di posti, a memoria molto di più dello scorso anno, quando mi recai per la serata di The Shins e Band of Horses.

COLAPESCE

Dedico solo qualche minuto al set di Daniele Celona, dato che sono occupato a fare la coda per mangiare qualcosa. Set decisamente energico il suo, con una band compatta e potente e chitarre particolarmente fragorose. La sua proposta non mi ha mai catturato più di tanto e dal vivo, nonostante la bontà della prova, non riesce a fare altrettanto. Riscuote comunque un discreto successo, a dimostrazione del fatto che ci ha dato dentro e che ha potuto usufruire di un pubblico già ben disposto.

Colapesce è ormai una garanzia ma mi rendo conto ora che non ho ancora avuto l’opportunità d scrivere qualcosa su questo ultimo tour, per cui rimedio subito. Infedele, per il sottoscritto uno dei migliori dischi del 2017 (sicuramente lo è stato in chiave italiana) ha decisamente fatto capire che Lorenzo Urciullo appartiene ad una categoria superiore. Dal vivo, se vogliamo, gli mancava ancora quel quid in grado di convincere appieno ma ormai, dopo otto mesi pressoché ininterrotti di concerti, possiamo dire che l’abbia trovato. Forte di una band di cinque elementi, formata da gente bravissima come Gannicola Maccarinelli (che è poi il Bonito Bellissimo dei JoyCut) alla batteria, Andrea Gobbi al basso, Mario Conte alle tastiere, Gaetano Santoro al sax e Adele Nigro degli AnyOther, imprescindibile soprattutto per il gran lavoro svolto sulle seconde voci, lo spettacolo che ha messo in piedi è bellissimo e ogni volta che lo vediamo ci convince sempre più.

ADELE NIGRO (COLAPESCE)

Un po’ troppo dissacrante a livello di immagine (con i musicisti vestiti da prete e la comunione distribuita al pubblico durante “Compleanno”, scena che ho trovato personalmente di pessimo gusto e che per fortuna a Torino ci è stata risparmiata), musicalmente è uno show vivace e colorato, dove chitarre acustiche ed elettriche si fondono senza problemi con le tastiere e dove il sassofono (spesso doppio, visto che anche Adele vi si concede qualche scorribanda) si prende un bello spazio, ritagliando folgoranti assoli dal sapore Free Jazz. Una resa dei brani al limite della perfezione, con Lorenzo che finalmente canta come Dio comanda, senza le imbarazzanti stonature che lo avevano contraddistinto in passato. Così, tra esecuzioni cristalline dei brani del nuovo album (la scenografica apertura di “Pantalica” ma anche i due singoli “Ti attraverso” e “Totale”, oltre che il romanticismo soffuso di “Sospesi” o le atmosfere sognanti di “Vasco de Gama”) e riletture di vecchi episodi (“Reale”, “Maledetti italiani”, “S’illumina”, “Restiamo in casa”), arricchite di mirabolanti code strumentali con duelli tra sax e chitarra, i sessanta minuti che ha a disposizione volano via come se niente fosse, dandoci nuovamente un’impressione di schiacciante superiorità. Siamo solo all’inizio della giornata ma è forte la sensazione che sia già accaduto qualcosa di importante.

ECHO AND THE BUNNYMEN

Non avevo mai visto dal vivo gli Echo and the Bunnymen, nonostante nel nostro paese abbiano suonato con una certa frequenza (l’ultima volta è stato quattro anni fa). I britannici appartengono a quella categoria di band storicamente imprescindibili che, pur portando avanti una carriera stabile e senza interruzioni, con risultati non disprezzabili (l’ultimo “Meteorites”, per dire, l’ho trovato un buon disco), rimangono tenacemente attaccati al loro periodo di gloria, forse consci del fatto che la maggior parte del pubblico li va a vedere proprio nella speranza di ascoltare quei brani lì. A breve uscirà “The Stars, The Oceans & The Moon”, disco dal vivo con inediti (le ottime “The Somnambulist” e “How Far”, proposte anche a Torino), resoconto di una serie di date con l’orchestra tenute lo scorso anno. Un ottimo modo di rivisitare e celebrare un passato che, per quanto lo si guardi con filtri anti nostalgia, bisogna ammettere senza mezzi termini che non sia mai stato eguagliato da ciò che è venuto dopo. Così non è uno scandalo che il loro set sia tutto un susseguirsi di classici, dall’iniziale “Lips Like Sugar” alla conclusiva “The Cutter”, passando per altri brani enormi come “Rescue”, “All That Jazz”, “Over the Wall”, “Bedbugs & Ballyhoo”, giusto per citarne alcuni. Ian McCulloch e Will Sergeant appaiono compassati ma in splendida forma, il frontman in particolare non fa una piega dietro i suoi occhiali scuri e canta con voce sorprendentemente simile a quella di 30 anni fa, con giusto qualche cedimento qua e là. La loro prova è assolutamente inattaccabile, i suoni sono nitidi, i volumi potenti quanto basta, il tiro pare essere quello dei vecchi tempi, anche se non ho ricordi personali che lo confermino.
Piacevoli e perfettamente funzionali all’insieme, le fugaci citazioni di “Roadhouse Blues” al termine di “Villiers Terrace” e di “Walk on the Wild Side” in medley con “Nothing Lasts Forever”, mentre, abbastanza comprensibilmente, “Seven Seas” e “The Killing Moon”  raccolgono i consensi maggiori tra il pubblico.
Sono certamente un gruppo del passato e può essere che nulla di quel che hanno pubblicato negli ultimi vent’anni sia degno di essere ricordato. Nonostante tutto, gli Echo and the Bunnymen sul palco spaccano ancora a profusione. Vale la pena che rimangano ancora a lungo tra noi.

MOGWAI

I Mogwai sono il grande capolavoro degli organizzatori del TOdays. Sarà anche vero che la maggior parte del pubblico voleva i My Bloody Valentine e che gli scozzesi da noi suonano un giorno sì e un giorno no; a Torino però non ci erano mai stati, almeno non di recente, e poi il livello del nome è tale da apparire molto più di un semplice rimpiazzo. In ogni caso la scelta ha pagato: c’è un sacco di gente e l’attenzione con cui la performance di Stuart Braithwaite e compagni viene seguita è a tratti irreale. Su di loro non c’è molto da dire. Ho da poco scritto della loro esibizione a Pavia e non mi sembra il caso di ripetermi. Più che altro, guardandoli suonare, si ha la netta sensazione di aver davanti cinque individui innamorati della musica, cinque amici che suonano insieme da trent’anni quasi e che sul palco fanno semplicemente quello che devono fare: divertirsi. Con l’affiatamento che hanno, non ci mettono molto ad imbastire una performance che spazza via tutto e tutti, allo stesso tempo devastante ed evocativa. Rispetto a Pavia i volumi sono molto più alti e questo, per come sono loro, è un grosso guadagno. Quando ci danno dentro infatti (soprattutto con l’assetto a tre chitarre) la potenza sprigionata è notevole, violenza selvaggia e allo stesso tempo toccasana per le orecchie.
La scaletta è leggermente diversa da quella ascoltata a luglio, con il ripescaggio di “Coolverine” ma anche alcune piacevoli sorprese come “We’re Not Done (End Title)”, “Remurdered” e “2 Rights Make 1 Wrong”. A chiudere il tutto, ovviamente ci pensa sempre “Mogwai Fear Satan”, con la sua alternanza di piano/forte sul finale che in questo contesto, con questi volumi, realizza la perfetta deflagrazione per chiudere la serata.

COSMO

Terminati i concerti allo Spazio, in molti si spostano all’ex Incet, piacevole sito di archeologia industriale riconvertito per ospitare eventi, che in questi giorni ha visto in scena le proposte più vicine all’elettronica. L’ora è tarda per cui resisto solamente al live di Cosmo che peraltro quando arrivo è già iniziato da una buona mezz’ora. Il suo nuovo spettacolo lo avevo visto a marzo al Fabrique e mi aveva convinto a metà. Qui, probabilmente costretto dai tempi più brevi, sembra andare maggiormente al sodo, riducendo molto la componente più smaccatamente Techno e puntando di più sui brani, che beneficiano di una resa sonora a mio parere superiore a quella di Milano.
Per il resto, tutto come da copione: i pezzi di “Cosmotronic” sono davvero trascinanti e il finale, con l’accoppiata “Turbo”/“L’ultima festa” è assolutamente devastante, con tutti che saltano impazziti dall’inizio alla fine e una pioggia di coriandoli a sottolineare il momento.
Marco Jacopo Bianchi è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi anni ed ha ormai dimostrato tutto il suo talento, avvalorato dal fatto che la sua unione di Pop ed Elettronica è declinata in modi che in Italia ancora non si erano visti.
Anche quest’anno ho assistito ad una sola giornata ma torno a casa con la sensazione accresciuta che il TOdays, sia saldamente al top per quanto riguarda gli appuntamenti estivi in Italia e che con questa edizione sia pure riuscito a fare un notevole salto di qualità. L’anno prossimo sarà d’obbligo riuscire a vederselo tutto.

COLAPESCE
COLAPESCE
ECHO AND THE BUNNYMEN

 

MOGWAI