Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Claudia Losini
Il TOdays festival ha vinto la scommessa. Già punto di riferimento importante per i live estivi nel nostro paese, a questo giro ha voluto tentare il grande salto, presentando in tre giorni una line up stellare, composta da alcuni dei migliori nomi del panorama internazionale. Quasi nessun nome nuovo, si è preferito puntare su act consolidati, la maggior parte con almeno quindici anni di carriera alle spalle, tutti passati dal nostro paese, anche più di una volta in tempi recenti. Quindi niente esclusive ma un gruppo di artisti solido e di qualità altissima, che non ha nulla da invidiare ai più blasonati festival europei.
Quello che segue è il resoconto del terzo giorno (il primo lo trovate qui, il secondo qui), con un breve schizzo per ciascuno degli artisti che ho visto suonare. Come sempre, non ho il dono della sintesi quindi sarà una roba lunga. Non siete però obbligati a leggere tutto: il nome di ogni act è in grassetto, quindi potete direttamente saltare a quello che vi interessa…

Domenica si parte presto perché, come da tradizione, alle 16 c’è in programma un live gratuito nell’area riqualificata del Parco Peccei, a pochi passi dai due punti principali dove si svolge il festival. Quest’anno tocca agli Sleaford Mods e lasciatemi dire che non poteva esserci scelta più azzeccata: l’immagine del duo di Nottingham che si esibisce sotto lo scheletro di un palazzo mai costruito, con i palazzi di periferia sullo sfondo, è una rappresentazione perfetta di quello che hanno sempre cantato nei suoi testi, oltre che la vittoria della scelta di rendere alcune delle zone dimenticate della città, la cornice dei momenti più significativi di questo evento. Da parte loro, Andrew Fearn e Jason Williamson si rendono autori di un set splendido, rabbioso ed intenso come è nella loro tradizione, col primo che se ne sta tranquillamente a muovere la testa dietro al suo laptop (sistemato sopra un bidone di latta, a rendere il tutto ancora più spartano) e a far partire le basi, con la proverbiale birra in mano e il solito cappellino sulla testa; il secondo, un animale da palco assoluto, flow poderoso e una capacità incredibile di rendere vive le parole che scandisce. Un live unico, fatto esattamente di tutto ciò che normalmente detesto nei live (nessuno strumento, basi pre registrate, ecc.), eppure maledettamente intenso, empatico ed irresistibile. Che potrebbe insegnarci un’importante lezione, se vogliamo: dove c’è talento vero, qualunque mezzo espressivo servirà a comunicare quel talento.
Purtroppo oggi il sole non dà tregua (per fortuna non durerà molto, visto che è ormai tardo pomeriggio) così che trasferirsi allo Spazio211 per l’inizio dei concerti costa più fatica del solito.

Ci pensano comunque i Parcels a farci tornare le energie. Giovanissimi, australiani ma trapiantati a Berlino, hanno catalizzato l’attenzione dei Daft Punk, che hanno deciso di produrre il loro omonimo esordio, uscito lo scorso anno. Non li conoscevo ma in pochi minuti ho capito perché un nome così grosso avrebbe deciso di scomodarsi per loro: dal vivo sono un’autentica bomba. Funk tiratissimo, profondamente venato di Synth Pop, perfetta padronanza degli strumenti e, particolare non trascurabile, una capacità vocale notevolissima da parte di tutti e cinque, spesso impegnati insieme dietro al microfono, con risultati sbalorditivi.
Un’ora tiratissima dove di fatto, nonostante la temperatura, piano piano tutti si alzano in piedi e cominciano a ballare. Non so come abbia fatto a lasciarmeli scappare ma di sicuro da questo momento non li perderò più di vista. Se girerà tutto bene, in ogni caso ne sentiremo parlare parecchio.

I Balthazar invece li attendevo con impazienza perché dopo averli visti fugacemente a fine giugno, nell’infernale contesto del Firenze Rocks, ero sicuro che, se si erano comportati bene in quell’occasione, qui avrebbero fatto scintille. Così è stato. Forti di un disco eccellente come l’ultimo “Fever”, che ha offerto indubbiamente la declinazione migliore delle loro capacità, i belgi si rendono autori di una performance bellissima, molto curata anche dal punto di vista scenico. Maarten Devoldere e Jinte Deprez dirigono a memoria un collettivo fluido ed eterogeneo, fatto praticamente tutto da polistrumentisti, anche loro bravissimi a livello vocale (le melodie irresistibili dei ritornelli sono state valorizzate dal fatto di essere eseguite spesso dall’intero gruppo, in un eccellente gioco di armonizzazioni) e innamorati delle percussioni, al punto che ne compaiono parecchi nel corso dello show, utilizzate sempre in maniera eclettica e divertente. C’è poi un repertorio di assoluto livello, che da “Wrong Faces” a “Blood Like Wine”, da “Changes” a “Wrong Vibration”, passando per una “Fever” mostruosa, con tanto di divagazione strumentale al centro, è in pratica l’assoluto protagonista di quello che, almeno a mio parere, sarà uno dei più bei set della tre giorni.
Sono troppo impostati? Può darsi. Sono un gruppo per fighetti? Può darsi anche questo. Alla fine comunque parlano i risultati e direi che da questo punto di vista è difficile discutere.

Johnny Marr non aveva bisogno di conferme e nessuno era curioso di vedere che cosa avrebbe fatto, lo si aspettava e basta. E lui arriva e fa il suo solito set, potente e coinvolgente, con una band che lo supporta in tutto e per tutto e un repertorio solido e credibile, con un’inattesa “Armatopia” in apertura e le sempre coinvolgenti “Hi Hello”, “Day in Day Out”, “Walk Into the Sea” e “Easy Money” a fungere da ossatura dello show. In mezzo, oltre ad una spiazzante cover di “I Feel You” dei Depeche Mode, non mancano le incursioni in territorio Electronic (le solite “Get the Message” e “Getting Away With It”) e, ovviamente, i brani degli Smiths, in particolare una “This Charming Man” strepitosa e una conclusiva “There is a Light That Never Goes Out” che fa sempre venire le lacrime agli occhi, in qualunque versione venga eseguita. Aggiungiamo poi che sentire dal vivo la sua chitarra è sempre un’emozione unica, che lui è fisicamente e artisticamente in forma strepitosa, e avremo detto tutto. Mi addolora doverlo scrivere e non avrei mai pensato di doverlo fare ma in questo momento storico, tra lui e Morrissey, almeno dal punto di vista artistico, è indubbiamente il chitarrista quello che si sta muovendo meglio.

Jarvis Cocker invece era un’incognita perché del suo nuovo progetto “Jarv Is…” è uscito solo un singolo e i commenti di chi lo aveva visto dal vivo all’ultimo Primavera Sound non erano stati del tutto lusinghieri.
L’ex Pulp mette in piedi uno show molto interessante e coinvolgente anche se senza dubbio non facile. Un concerto dove i brani inediti si alternano con alcune delle sue vecchie cose da solista (“Further Complications”, “Cunts Are Still Ruling the World”) e un solo richiamo al repertorio della band madre: “His N Hers”, bside del disco omonimo.
C’è quel gusto melodico che lo ha sempre caratterizzato, c’è la sua irresistibile teatralità, c’è un lotto di canzoni nuove che non sono per niente semplici ma che, almeno a giudicare dal primo ascolto, ce lo fanno ritrovare ad un livello alto di ispirazione, tra marcate suggestioni bowiane ed un certo feeling oscuro tipico di Nick Cave.
In mezzo, parla a profusione, introduce i brani, che sembrano tutti ruotare attorno ad una complessa riflessione sull’esistenza umana e sul modo in cui ci percepiamo nel mondo. Ad un certo punto scende tra le prime file, per una sorta di seduta psicoterapeutica, dove chiede ai fan quali sono le loro peggiori paure e, una volta ricevuta la risposta, prova a dire qualcosa per farli sentire meglio.
Un concerto particolare, sicuramente inatteso, ma che ci lascia indubbiamente lieti e riempiti. A questo punto aspettiamo il disco ma direi che dopo quel che abbiamo visto è lecito ben sperare.

Siamo a pezzi, sono stati giorni impegnativi ma come si fa a perdersi Nils Frahm? È già tardi, Jarvis ha finito pochi minuti prima della mezzanotte (“Adesso vi lascio andare, voglio andare anch’io a sentire Nils Frahm!”) e c’è ancora tutta la strada da fare per arrivare all’Incet. In realtà, quando ci presentiamo all’ingresso, scopriamo con sorpresa che moltissimi erano entrati prima e di coda non ce n’è affatto. Piuttosto, un nutrito numero di persone accasciate per terra nelle retrovie: la stanchezza ormai si fa sentire per tutti.
Personalmente non sono un grande amante del compositore tedesco ma è indubbio che vederlo in azione rappresenti un’esperienza da fare, almeno una volta nella vita. Circondato da un muro di Synth, pianoforti, consolle e quant’altro, si produce in una performance dove parti di piano solo (letteralmente da brividi) si alternano con composizioni montate pezzo per pezzo al momento, correndo da una parte all’altra del suo “tavolo da lavoro” per aggiungere strati su strati.
Dura due ore e le sue atmosfere eteree e notturne al tempo stesso ci rapiscono e ci portano in un’altra dimensione. È tardi, le gambe fanno male ma non ci si può assolutamente muovere. Migliore conclusione per questa edizione non poteva esserci.
Termina così un TOdays che è entrato di diritto tra gli eventi musicali più riusciti mai accaduti nel nostro paese. Abbiamo assistito a qualcosa di veramente unico, per importanza e qualità degli artisti coinvolti, fascino delle location, educazione del pubblico e vivibilità dei concerti. Complimenti davvero agli organizzatori, che per una volta non ci hanno fatto invidiare le rassegne di questo tipo in altre parti d’Europa. Andando avanti così, si potrà solo crescere. Ci vediamo l’anno prossimo.










1 Pingback