L I V E – R E P O R T


Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Ambrogio Brambilla

I King Gizzard & the Lizard Wizard sono una band fuori dal comune, direi che è un’affermazione banale ma assolutamente inevitabile. 
Al di là del nome che si sono scelti, che basterebbe da solo a farci parlare per mezz’ora, gli australiani si sono distinti anche dal punto di vista dell’amministrazione della propria carriera e dei propri contenuti musicali: non ci sono molti gruppi, in effetti, che hanno pubblicato 14 dischi in sette anni, cinque dei quali, tra l’altro, nel solo 2017. E non esiste altro gruppo in grado come loro di giocare coi generi e le etichette, stravolgendoli, indossando maschere ed incarnando di volta in volta la veste che è loro più congeniale. Che sia il Jazz di “Sketches of Brunswick East”, la psichedelia rarefatta e vagamente progressiva di “Gumboot Soup”, l’Heavy Metal di “Murder of the Universe” o ancora le bordate stoner di “Nonagon Infinity” o “Polygondwanaland”, ogni uscita di questi simpatici pazzoidi rappresenta un punto di vista unico, un lato differente della loro personalità. 

L’ultimissimo “Infest the Rat’s Nest” è poi un caso ancor più clamoroso: un disco intero che imita pedissequamente il Thrash Metal incalzante e tagliente di scuola Bay Area, concepito e suonato talmente bene, ricreato con tale filologica precisione che a tratti, chiudendo gli occhi, sembra di trovarsi di fronte ad una versione ancora più malata degli Exodus, dei Death Angel o dei primissimi Metallica.
Va da sé che il ritorno nel nostro paese, ad un anno di distanza dall’ultima volta (avevano suonato al TOdays), ha radunato una bella folla di appassionati, tanto da riempire lo stage B dell’Alcatraz e realizzare un sold out gradito quanto sorprendente. Il risultato è che si sta stretti, parecchio stretti e che non sempre è possibile godersi appieno lo show. Forse sistemare il tutto nel palco principale sarebbe stata una soluzione migliore ma è altrettanto vero che difficilmente gli organizzatori si sarebbero potuti aspettare una risposta del genere.
Parliamo però per noi spettatori ormai attempati: la maggior parte del pubblico non si fa troppi problemi e per 90 minuti abbondanti si fa coinvolgere in un pogo massiccio, costellato da numerosi Stage Diving (compreso quello del tastierista Ambrose Kenny Smith, che si è lanciato in mezzo alla folla per poi riemergere diversi minuti dopo, sempre continuando a cantare indisturbato). A vederli dal vivo, in effetti, si capisce che l’identità del gruppo è molto più omogenea e codificata di quanto si potrebbe pensare a considerare solo il carattere schizofrenico della produzione in studio.



Sul palco sono in otto, spinti dalla doppia batteria di Michael Cavanagh ed Eric Moore e l’obiettivo principale è quello di far casino e spaccare tutto. Certo, nel momento in cui sono i pezzi dell’ultimo disco ad essere suonati, vedi la doppietta iniziale con “Self-Immolate” e “Organ Farmer”, l’atmosfera si incendia immediatamente e l’Alcatraz diventa un girone infernale; quando però subito dopo, senza soluzione di continuità, si tuffano in “Plastic Boogie”, il ritmo non cala per niente, anzi.
Sono le chitarre pesanti, le ritmiche incalzanti, i mid tempo spaccaossa, a farla da padrone, anche perché  la dimensione live rende tutto più potente e diretto. Certo, non mancano momenti in cui si rallenta un po’ e i suoni si fanno più leggeri, le tastiere vengono messe in evidenza e la sezione ritmica smette di martellare. Anche perché stasera, all’interno di una setlist che viene costruita in maniera differente data dopo data, vengono recuperate cose anche lontane dallo Psych Rock o dai riffoni Sabbathiani (“Loyalty”, “Horology”, “This Thing”). Qua e là spunta anche il flauto di Stu Mackenzie, imbracciato tra una pausa e l’altra dal suo ruolo primigenio di cantante, chitarrista e mattatore (anche se il suo compare Cook Craig, responsabile della maggior parte delle parti vocali, non è da meno). 



Nella parte centrale, si alternano ulteriori bordate Thrash (splendida la mazzata di “The Great Chain of Being” ma anche “Evil Death Roll” e “The Bitter Boogie”, fuse insieme senza soluzione di continuità, quasi fossero un unico brano) ad irresistibili incursioni nel Rock Blues più acido e allucinato (“Cyboogie”, “Birdsong”), mentre il finale è tutto all’insegna dell’Heavy Metal più epico, con una successione di episodi tratti da “Murder of the Universe”, da “Digital Black” a Vomit Coffin”, passando per l’inattesa “Han-Tyumi the Confused Cyborg”, fino alla title track, terminata la quale i nostri si congedano definitivamente. 
Non fanno mai bis, normalmente e i loro fan dovrebbero saperlo. Eppure è stato talmente bello, talmente alta la scarica di adrenalina, che non se ne va nessuno, rimangono tutti sotto il palco a chiedere altri pezzi, nonostante le luci siano già accese, i tecnici stiano già sbaraccando e la sicurezza si stia impegnando a sbattere fuori tutti. 
Credo non ci sia testimonianza migliore di questa dell’ottima riuscita di un concerto. I King Gizzard & The Lizard Wizard sono una band straordinaria, unica al mondo e anche dal vivo sono probabilmente tra i migliori al mondo, in questo momento. A questo punto non resta che attendere un nuovo album, aprendo già le scommesse su quale direzione decideranno di intraprendere.