R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
A soli trentaquattro anni Shai Maestro arriva al suo sesto disco da titolare, il secondo con l’etichetta ECM. Dopo un luminoso esordio con l’Avishai Cohen Trio che l’ha tenuto a battesimo dal 2008 al 2011, il pianista e compositore israeliano ha spiccato il volo creandosi attorno un proprio gruppo e sentendosi ormai maturo per offrire un’immagine più completa del suo essere artista. Non saprei cosa propriamente intendere col termine di “esperienza religiosa” ma sono pronto a credere che una consapevolezza di questo tipo sia quanto di più pertinente possibile per ciò che riguarda questa ultimo progetto Human, presentato in compagnia con il batterista Ofri Nehemya, il contrabbasso di Jorge Roeder e l’apporto etereo del trombettista Philip Dizack. C’è tensione devozionale, in questo lavoro. Il tocco pianistico è uno scandaglio interiore che misura gli echi dell’anima e non credo sia sufficiente chiamare tutto questo semplicemente “lirismo”. C’è un obiettivo in questa musica ed è qualcosa di assoluto, un sentimento che nasce in solitudine e che tende a far levitare lo spirito verso l’alto in un tenace desiderio di trascendenza.
Si ascolta la voce spirituale di un Medio Oriente che non segna solamente la provenienza geografica dell’autore ma che raccoglie antiche risonanze, suggestioni levantine, inni alle profonde misteriosità della vita. Enigmi da decriptare, quindi, al di sotto di strutture melodiche dall’aspetto semplice, lontane anni luce dalle tortuosità armoniche senza risoluzioni di molto jazz contemporaneo. Un’autentica esperienza delle vette, purificatrice e risanatrice, “pharmakon” mentale che ci riporta al culto dell’Armonia in un momento storico in cui la Dissonanza (cioè una separazione tra assonanze) pare farla da padrona, nella vita come nella musica.
Time ci apre la porta del giardino svelato di Shai Maestro dove un rapido arpeggio di piano su un accordo in maggiore viene sensualmente avvolto da qualche nota circolare del contrabbasso. Ci accorgiamo subito dei primi incantamenti che sanno di Oriente e da qui in poi si snoda il sentiero che porta verso la magica profondità dell’intera poetica di Human. Difatti il secondo brano si chiama Mystery and illusions, con un inizio molto melodico e l’apparizione della tromba di Dizack che mi ricorda il suono di Enrico Rava. Il piano sembra disegnare le linee di una danza, portandosi al limite della tonalità d’impianto mentre la batteria offre un robusto supporto ritmico e la sonorità generale si riempie, i volumi crescono raggiungendo infine uno stato orgasmico di malinconica felicità. Ma quanto De Hartmann, da qui in poi, quanto Gurdijeff aleggerà per l’intero viaggio? Il brano Human che dà il titolo all’album è una parentesi melodica, decisamente cantabile, quasi una pop-song di lusso, dominata dalla timbrica vellutata della tromba. La sigla GG del brano seguente, si snoda attraverso un ostinato pedale, una serie di intervalli di quinta che Maestro ribatte con la mano sinistra imponendo una visione modale dell’intero brano e dando spazio alla mano destra che corre spesso all’unisono con la tromba. Non so a quale ladro si riferisca la traccia che segue, The Thief’s dream, ma il suo sogno che inizia come una ninna-nanna contornata da una serie di arpeggi di piano, si fa via via più inquieto diventando piuttosto movimentato, almeno a giudicare dagli interventi di batteria e tromba.
Commovente, profondo ed elegiaco è il brano dedicato ad Hank Jones e Charlie Haden, Hank and Charlie, dove il piano di Maestro ed il contrabbasso di Roeder suonano alla maniera dei due musicisti scomparsi celebrandone onestamente e rispettosamente il ricordo. Ho assistito a uno degli ultimi concerti di Hank Jones, a Milano. L’anziano musicista venne sorretto fino al piano perché un po’ incerto sulle gambe ma poi produsse una musica misurata e formalmente perfetta. Non ho mai goduto un concerto dal vivo di Haden, invece, ma il ricordo di quei due dischi creati in coppia con Keith Jarrett – Jasmine e Last dance – è sempre vivo e ogni tanto torno a riascoltarli, cosciente ormai, data anche la situazione fisica di Jarrett, che lavori di quella sostanza non potranno più essere replicati. Compassion segue alla dedica precedente e sembra una solitaria meditazione che rincorre idealmente una riflessione nostalgica, piena di rimembranze legate a lontani ricordi, ed è ancora De Hartmann e le sue note mistiche che affiorano lungo tutto questo procedere melodico. Una certa suggestione la provoca anche il canto a labbra chiuse di Maestro che accompagna la musica nel suo sviluppo. E poi c’è Prayer e quanto si era accennato sulla religiosità dell’autore torna ad essere ridiscusso. Anche qui il tutto si snoda entro tempi collaudati e meditati, col ricordo di certe solitarie sintesi armoniche di Abdullah Ibrahim ma con il supporto in più di contrabbasso e batteria che officiano a questa preghiera comune. They went to war ha un aspetto più spettrale, un rullante che segnala una marcia militare, una tromba a metà tra la drammaticità morriconiana e una struggente processione di clown felliniani sulle note di Rota in Otto e mezzo. L’omaggio al Duca con In a sentimental mood è alquanto brillante e personale, modernissimo nel suo proporsi e nell’utilizzare le note dell’inciso come trampolino di lancio per un ulteriore escursione nel territorio dell’improvvisazione. Presumo che questa versione non sarebbe dispiaciuta allo stesso Ellington. Chiude Ima che ricattura per un attimo la melodia precedente per poi lasciarla libera e andare a chiudere con quegli echi medio-orientali a lungo così evocati, chiamati alla chiosa quasi a voler sintetizzare contemporaneità e passato, tradizione e futuro in un unico, appassionato abbraccio.
Tracklist:
01 Time
02 Mystery And Illusions
03 Human
04 GG
05 The Thief’s Dream
06 Hank And Charlie
07 Compassion
08 Prayer
09 They Went To War
10 In A Sentimental Mood
11 Ima (For Talma Maestro).
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