R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Più che dal nome di Johnathan Blake, in questo disco sono stato attratto dalla presenza della coppia Immanuel Wilkins al sax alto e Joel Ross al vibrafono, due giovani jazzisti che mi hanno sempre molto coinvolto nella loro musica – una recensione su Joel Ross la trovate qui su Off Topic. Eppure il corpulento Blake è da dieci anni uno tra i batteristi più richiesti nell’ambito del jazz USA, vantando illustri militanze col quintetto di Tom Harrell dal 2010, ad esempio, e col trio di Kenny Barron dal 2016, oltre ad essere presente nel quartetto di Russell Malone. Figlio d’arte – il padre, John Blake jr. era un famoso violinista che aveva suonato con Groover Washington e McCoy Tyner – Johnathan arriva al quarto disco come titolare e debutta con questo Homeward Bound per la Blue Note. Nonostante l’album faccia riferimento, un po’ con la copertina e un po’ con un brano dedicato, ad un avvenimento drammatico – un folle che nel 2012 sparò fuori da una scuola elementare del Connecticut uccidendo ventisette persone tra bambini e insegnanti – lo svolgersi della musica è invece estremamente vitale dando origine ad un plastico impasto sonoro sospeso tra rilassatezza e tensione espressiva. A proposito del contributo di Wilkins e Ross, molto del loro modo di concepire la musica transita attraverso Homeward e lo si comprende in quella attitudine – ovviamente condivisa col resto della band – di creare isole asimmetriche in un contesto tutto sommato relativamente tradizionale. Sono sprazzi di astrazioni, macchie di colore a gocciolare su strutture di usuale compostezza formale.  Il gruppo di musicisti di cui ci occupiamo e che accompagna Blake si chiama Pentad ed è composta, oltre ai già citati Wilkins e Ross, anche da David Virelles al piano – già presente nell’ultimo lavoro di Andrew Cyrille, The News, di cui troverete la recensione qui – e Dezron Douglas al contrabbasso che abbiamo ascoltato nell’album di Brandee Younger, Somewhere Different, anch’esso recensito qui su Off Topic.

In the beginning was the drum ribadisce, dall’inizio, il ruolo portante di Blake e della sua batteria ma è solo un intro, un indirizzo appuntato su carta che ci porta dritti al secondo brano, Homeward Bound, che dà il titolo all’album. Nonostante questo pezzo sia dedicato ad Ana Grace Greene, la figlia di sei anni del sassofonista Jimmy Greene – amico di Blake -rimasta appunto uccisa nell’episodio sopra descritto, è assolutamente fuori luogo aspettarsi un brano da cui traspare dolore. Il pezzo viene concepito con un piccolo, bellissimo preludio dal tono malinconico ma subito dopo ci si concentra sugli aspetti vitali della bimba, almeno così come la ricorda lo stesso Blake. Infatti l’assetto compositivo punta, dopo l’introduzione, ad una musica intensamente ritmica, valorizzata dal dialogo a due tra sax e vibrafono e armonicamente ben solidificata attorno alla base pianistica, oltre a quella pulsante di contrabbasso e batteria. Circa al minuto 02:30 si avverte lo stacco che prelude all’improvvisazione botta-e-risposta di Wilkins e Ross. Mentre il sax cerca di spingere le sue scale ai limiti tonali, il vibrafono dà invece equilibrio rimarcando le fondamentali armoniche e riaggiustando il baricentro. Virelles interviene col suo personale modo di approcciare il pianoforte e già avevamo notato nell’album di Cyrille come gli enti costitutivi dei suoi assoli cerchino di portarsi ai limiti di ciò che lui recepisce quasi come una gabbia, cioè l’impianto tonale dell’intera traccia. Potremmo dire che dove il sax s’arresta, il piano si spinge oltre cercando di trovare comunque il suo posto sviluppando le sue imprevedibili scale. River Parks esordisce con un clima quasi fusion, evocando certi lavori di Herbie Hancock degli anni ’70 e non è solo per il suono del Fender Rhodes. Anche Wilkins segue questa falsariga fino a quando il vibrafono, un po’ alla Gary Burton, non compare sul proscenio. La sua apparizione libera la verve di Wilkins che gira attorno alla costruzione del brano, scambiandosi la mano dell’assolo con lo stesso Ross. È poi la volta del piano elettrico che attira i riflettori su di sé, con un volteggiare misurato e un po’ ombroso. Anche il contrabbasso trova gloria facendo vigorosamente vibrare le sue corde prima della chiusura. Shakin’ the Biscuits inizia con un breve percorso informale, qualche accodo rarefatto di piano rhodes e un sax che si concede un momento di free. In seguito la musica occhieggia ancora verso il mondo della fusion tanto da sollecitare in alcuni punti il ricordo di gruppi come gli Yellowjackets. Nella parte intermedia del brano queste analogie vengono temporaneamente abbandonate a favore di qualche movimento più contemporaneo, quelle famose “isole astratte” di cui si accennava all’inizio della recensione. Tuttavia l’impronta di base continua qui ad essere sempre orientata, e ben si avverte, sull’onda fusion.

Abiyoyo è un breve, insolito, melodicissimo brano ispirato da una lullabye sudafricana., introdotto da semplici percussioni raddoppiate da qualche accordo rarefatto di piano. Tutti gli strumenti intervengono successivamente in brevi flash, ciascuno dei quali ben attento a non turbare il mood intimamente raccolto in sé stesso. On the break tiene fede al titolo, è solo un piccolo stacco con basso e batteria scanditi ritmicamente e sovrapposti ad una serie ripetuta di accordi pianistici. LLL è un’altra dedica ad un musicista scomparso, il batterista Lawrence Lo Leather ucciso a pugni dall’amante della sua compagna. Anche in questo caso, come già accaduto per Homeward Bound, il brano è scevro di sentimentalismi, anzi, si mantiene su un binario molto vigoroso, oserei dire paradossalmente ottimista – nonostante tutto. Si inizia con un assaggio di batteria prima della comparsa del tema condotto dal sax di Wilkins. Molto in evidenza il piano di Virelles che, come si è capito, possiede una visione armonica superiore, nobilitando il brano con un lungo, cangiante assolo prima dell’intervento altrettanto tecnicamente sopraffino del vibrafonista. Jazz mainstream? Si e no, si entra e soprattutto si esce dai canoni più regolari proprio grazie all’estro dei solisti. In chiusura Steppin’ out di Joe Jackson. L’intro è un capolavoro di mascheramento da parte del piano di Virelles che assorbe in un climax molto personale il tema del brano, rendendolo fascinosamente irriconoscibile. Tuttavia Steppin’ out  è un pezzo già perfetto com’è stato concepito, iconico della New York degli anni ’80. Infatti i musicisti del Pentad lo “preservano” per quanto possibile, ritrasformandolo in forma più libera nella parte di mezzo, approfittando dello stato di grazia di Wilkins che sorvola il brano dall’alto con furibondo slancio free. Coda lunga e reiterata con il potente drumming di Blake nel finale. La digressione acidula che la band si permette non è comunque un momento isolato e relativo a quest’ultimo brano. In fondo tutto il percorso dell’album è contraddistinto da queste deviazioni dai temi, queste curve ad angolo acuto che si prestano a locali combustioni armoniche partecipando alla tensione – ma sempre mai fuori luogo – che percorre l’architettura dell’intero lavoro. Blake è molto bravo, insieme al contrabbasso preciso e misurato di Douglas a porsi dei freni strategici e a promuovere l’estro improvvisativo di piano, sax e vibrafono, la vera colonna portante dell’opera, esuberante senza diventare mai convulsa.

Tracklist:
01. In The Beginning Was The Drum
02. Homeward Bound (For Ana Grace)
03. Rivers & Parks
04. Shakin’ The Biscuits
05. Abiyoyo
06. On The Break
07. LLL
08. Steppin’ Out

Photo © David Ellis